Vivrà lontano dalla Sicilia e con una nuova identità, Giovanni Brusca, l’uomo che il 23 maggio 1992 azionò il telecomando che innescò l’esplosione per la strage di Capaci, è libero. “[…] Mentre le sue vittime sono sotto terra e lo saranno per sempre", sono le parole dette all'Adnkronos da Giuseppe Costanza, l'autista del giudice Giovanni Falcone, sopravvissuto alla strage di Capaci del 23 maggio di 33 anni fa, quando persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Dunque il boss di San Giuseppe Jato che ha alle spalle decine di omicidi, oltre alla strage di Capaci, è libero: Brusca ha scontato 25 anni di carcere, di cui gli ultimi quattro in libertà vigilata. Ora è scaduto il termine dei quattro anni di libertà vigilata per l’ex collaboratore di giustizia, pentitosi dopo l’arresto, gesto che gli ha permesso di ottenere un enorme sconto della pena, da ieri è di nuovo un uomo libero. Nato nel 1957, secondo le sentenze, è stato lui a premere il telecomando che il 23 maggio 1992 fece esplodere il tratto di autostrada a Capaci, provocando la morte del magistrato, della moglie, anche lei magistrato, e degli agenti della scorta. Brusca ha ammesso di aver partecipato o addirittura ordinato più di centocinquanta omicidi, tra questi il sequestro e il delitto del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni ed era figlio di un collaboratore di giustizia: il ragazzino fu strangolato e poi sciolto nell’acido. E dopo anni di latitanza, Brusca fu arrestato nel 1996. All’inizio il boss tentò un falso pentimento, poi decise di collaborare con la giustizia. Seppure la legge lo preveda, resta un grande interrogativo dinanzi alla sua libertà: è giusto, nonostante la legge, che esca?

“[…] Ritengo che questa non è Giustizia né per i familiari né per le persone perbene. A distanza di 33 anni i processi continuano e noi familiari non sappiamo la verità. Credo sia indegno che Brusca, per quanto abbia avuto accesso alla legge sui collaboratori di giustizia sia libero. Mi aspetto che la città si indigni dinanzi a questa notizia. Se è vero che è cambiata. Ritengo che non si possa rimanere indifferenti". Così Tina Montinaro moglie di Antonio, caposcorta del giudice Falcone, rimasto ucciso nella strage di Capaci ha commentato la notizia. "Come cittadina e come sorella, non posso nascondere il dolore e la profonda amarezza che questo momento inevitabilmente riapre. Ma come donna delle Istituzioni, sento anche il dovere di affermare con forza che questa è la legge. Una legge, quella sui collaboratori di giustizia, voluta da Giovanni, e ritenuta indispensabile per scardinare le organizzazioni mafiose dall'interno". Lo ha dichiarato Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso dalla mafia.

Intanto nella mente di ognuno di noi restano le immagini terribili che ci riportano indietro a 33 anni fa. Quando, quel sabato pomeriggio del 23 maggio 1992, a Capaci, a pochi chilometri da Palermo, lungo l’autostrada che collega Punta Raisi con il capoluogo siciliano, si arresta la corsa di tre auto di grossa cilindrata che sfrecciano, una dietro l’altra, a 150-160 chilometri orari: al volante della Croma che sta al centro, c’è Giovanni Falcone, il giudice antimafia, che approfitta dei fine settimana per tornare nella sua amata città, a destra, lato passeggero, è seduta la moglie, Francesca Morvillo, anche lei magistrato a Palermo, mentre dietro c’è l’autista, Giuseppe Costanza, sopravvissuto alla strage. Dall’autostrada si intravede Isola delle Femmine, quando alle 17.58, il manto stradale salta in aria: la prima auto si disintegra con i tre uomini di scorta, la parte anteriore della Croma, che viaggia dietro, con a bordo il giudice e la moglie, viene tranciata. Dalla terza macchina di scorta, scendono illesi gli altri tre agenti, che danno i primi soccorsi. Lontano, in un campo, ci sono i resti della Croma di scorta, che precedeva quella del giudice, e i corpi dilaniati dei tre agenti: Antonio Montinaro, di Lecce, padre di due bambini; Rocco Di Cillo, di Bari, fidanzato con una ragazza palermitana; Vito Schifani, siciliano, padre di un bimbo di quattro mesi. A circa quattrocento metri dal luogo dell’agguato, su una collina, ci sono i tre uomini che hanno agito: uno di loro è Giovanni Brusca, “picciotto” di Totò Riina (che sarà arrestato il 16 gennaio 1993). Brusca "ha beneficiato di questa normativa, ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia che ha avuto un impatto significativo sulla lotta contro Cosa Nostra. Le sue confessioni hanno contribuito all'arresto di numerosi mafiosi e alla confisca di beni illeciti. Tuttavia non si può ignorare che la sua collaborazione non è stata, su ogni fronte, pienamente esaustiva. In particolare, rimane tuttora un'area nebulosa quella riguardante i beni a lui riconducibili, per i quali la magistratura ha il dovere di continuare a indagare e chiarire ogni dubbio: colpire i mafiosi nei loro interessi economici è la pena più dura, privarli del denaro è ciò che li annienta davvero", ha concluso Maria Falcone.
