Se c’è un’immagine che può raccontare più di altre cosa abbia rappresentato Eugenio Scalfari per il giornalismo italiano, la si può ritrovare probabilmente in una delle foto più note degli Anni di piombo: è quella che ritrae Aldo Moro, dopo un mese di prigionia nel nascondiglio di via Montalcini, con in mano la copia de la Repubblica del 19 aprile 1978. L’indicazione del direttore, che ne era stato fondatore, appare sotto la testata, a destra: Repubblica aveva poco più di due anni, a quel tempo, non arrivava a 120 mila copie eppure stava costruendo una storia di successo, quella del giornale-partito, dove Scalfari non solo era l’ideatore, il fondatore e il direttore, ma anche il nume tutelare per fama, passato ed esperienza non solo giornalistica. Ne sarebbe stato anche proprietario, per un certo periodo, assieme a Carlo Caracciolo, e il giornale sarebbe diventato il primo in Italia per vendite, voce influente capace di veicolare il pensiero di milioni di italiani, come e a volte più del Corriere della Sera, di cent’anni più anziano.
Altri tempi, altri uomini, altro giornalismo, altra politica, mentre l’imprenditoria mostra ancora nomi e tratti di continuità. Scalfari ha attraversato la storia da protagonista sin dai tempi dell’Espresso – vi lavorò dalla sua fondazione, assunse la direzione da Arrigo Benedetti nel 1963 – e non solo come giornalista, ma anche come azionista, sino ad essere parte in causa, quale salvatore del giornale, nella “guerra di Segrate”, il lungo braccio di ferro tra Cir (De Benedetti) e Fininvest (Berlusconi) per l’acquisizione di Mondadori, una vicenda in qualche modo esemplare nel capitalismo e nell’editoria italiana. Lo Scalfari giornalista innovatore lo si trova su tutti i manuali di giornalismo, legittimamente peraltro, una figura che ha pochi pari: geniale e padrone (“Se c’era un buco, qualcosa che i concorrenti avevano e noi no, o qualche svarione grave, ritenevo opportuno che il responsabile fosse punito”), colto e provvisto di un ego “appena un po’ più grande del normale”, audace al punto di essere capace attraverso i suoi giornali di costruire il suo lettore ideale, a sua immagine; un pubblico che in parte c’era ma che probabilmente, nei grandi numeri successivi, è stato plasmato dalla familiarità con le specificità dell’Espresso e della Repubblica scalfariani. Ovvero la severità e il moralismo perorate, anche attraverso alcune delle più grandi firme che lui ha voluto nelle sue testate, da una prospettiva di sinistra liberale che ha sempre guardato a quello comunista, quando esistevano i comunisti, come a un bacino di lettori da attirare in un’ottica di democrazia solidaristica borghese. Una scelta imprenditoriale e giornalistica che ha premiato, almeno sino a quando si è continuato a leggere i giornali, sino a vent’anni fa, quando Scalfari non era più direttore di Repubblica – firmò l’ultimo numero il 5 maggio 1996 – mantenendo il nome in bella evidenza sotto la testata alla voce “fondatore”, con accanto via via il direttore di turno (Ezio Mauro, Mario Calabresi, Carlo Verdelli, ora Maurizio Molinari).
Riassumere la parabola esistenziale, professionale e persino quella culturale di Scalfari, tra i numerosi interessi e la profondità di analisi di un testimone di un’epoca e di un Paese, può solo risultare parziale, un elenco magari pure fuorviante perché citare battaglie, incarichi – fu anche parlamentare, eletto nella V legislatura con il Psi – e persino nemici avrebbe senso solamente in un contesto più analitico, un libro più che un articolo, nei cui capitoli si dipani l’intreccio incestuoso dei rapporti tra politica, imprenditoria e giornalismo, con quest’ultimo passato nell’arco della sua storia da cane da guardia a cane da riporto di questo o quel padrone.
Anche per questo interrogarsi su quanto ci sia dell’originario spirito di Scalfari nella Repubblica attuale è un esercizio di stile, sebbene ci sia sempre stato molto Scalfari sulle sue pagine anche diversi anni dopo l’abbandono della direzione. Il dopo Mauro, diciamo: non la Repubblica migliore, non lo Scalfari migliore, perché passino – e nemmeno tanto, considerando la contrazione nelle vendite della testata, a prescindere dall’agonia del mercato dell’editoria quotidiana tradizionale – il progressismo snob e le battaglie, a volte di facciata, di un giornale profondamente cambiato, ma le articolesse infinite su tutto lo scibile hanno contribuito a diffondere l’immagine di uno Scalfari giurassico, vegliardo tuttavia umanamente e giustamente ancorato alla memoria, piuttosto lucido e consapevole certo ma talvolta lontano dalla realtà e dalle chievi interpretative di quel lettore ideale che oggi Repubblica non la legge più. Ma lontano anche da quello Scalfari che, magari, le interviste-non-interviste ai Papi, in realtà ricostruzioni fiume di dialoghi privati – o almeno di questo tenore sono state le smentite del Vaticano in merito ai colloqui con Papa Francesco – le avrebbe rifiutate così come proposte. In questo senso, a fronte del significante sotto forma del grande editoriale riservato al venerato maestro, il significato è che in redazione ai totem nemmeno più si controbatte in termini dialettici: lo spazio si concede perché riempie la pagina, i pezzi si inseriscono, si mettono a misura, si titolano alla meno peggio. Tanto chi li legge più?