Arrivati nel 2023, dopo decenni di intensi scambi commerciali, possiamo improvvisamente fare a meno della Cina? No, l'Occidente non può fare a meno di Pechino, almeno nel breve-medio periodo, e a meno di non fare i conti con pesanti contraccolpi economici. Il discorso, in realtà, è molto più ampio e chiama in causa la globalizzazione, che, tra le altre criticità, ha sostanzialmente creato molteplici forme di dipendenze a buon mercato tra Paesi. Per gli europei, in particolare per la Germania, i lati negativi di una simile condizione sono emersi con la pandemia di Covid-19 e la guerra in Ucraina. Nel primo caso, le rigide misure anti contagio imposte da Pechino - compresa la chiusura di fabbriche e stabilimenti - hanno limitato, se non interrotto, le esportazioni di alcuni prodotti provenienti dal gigante asiatico, con la conseguenza di ordini d'attesa lunghissimi per acquistare, ad esempio, certi modelli di automobili o smartphone. Nel secondo, il deterioramento delle relazioni con la Russia hanno spinto l'Europa a cercare fornitori alternativi di gas e petrolio, con difficoltà nella ricerca e costi in aumento. Se, in tempo di pace, pochissimi sono soliti farsi domande per gli effetti della dipendenza in settori strategici da un Paese terzo, il discorso assume un'altra forma di fronte a tensioni globali in aumento, guerre o calamità naturali. A destare enormi preoccupazioni, più che la Russia, è la Repubblica Popolare Cinese. Il presidentissimo del gigante asiatico, Xi Jinping, a differenza dei leader occidentali ha posto la massima attenzione sulla sicurezza nazionale del suo Paese, declinando il concetto in molteplici ambiti, compresa l'economia. Da quando, nel 1978, la Cina ha attuato le riforme economiche e di apertura, è diventata la “fabbrica del mondo”. Le multinazionali occidentali hanno preferito delocalizzare le loro aziende oltre la Muraglia, così da incrementare i guadagni, sia grazie all'accesso all'enorme mercato interno del Dragone sia per i bassi salari dei dipendenti cinesi. Tuttavia, mentre Europa e Stati Uniti dormivano tra quattro cuscini, pensando di aver raggiunto un livello economico e tecnologico insuperabile, la Cina ha continuato a crescere sempre di più, fino a superare il “maestro” occidentale.
Le radici del dominio economico della Cina
Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha recentemente sottolineato come l'Europa si affidi ad un unico fornitore, la Cina, per il 98% delle terre rare, il 93% del magnesio e il 97% del litio. Stiamo parlando di quel gruppo formato da 17 elementi chimici della tavola periodica, precisamente dal numero 57 al 71, oltre al 21 e 39, fondamentali per lo sviluppo tecnologico ed elettronico odierno. Banalmente, sono utilizzati sia per la realizzazione di prodotti di consumo legati alla quotidianità di ogni persona – come computer, televisori, automobili e cellulari - che per particolari strumenti militari. Ebbene, l'Europa ha risposto alla crisi energetica diversificando le proprie fonti rispetto a quelle russe, ma difficilmente potrebbe fare qualcosa di simile con la Cina. Sia per l'importanza delle terre rare – è difficile sostituire i fornitori – che per l'immenso potere economico e politico di Pechino. Il Dragone controlla il 63% degli ossidi di terre rare globali, l'85% dei minerali raffinati e il 93% della produzione mondiale di magneti. Insomma, le radici del dominio economico cinese non affondano più nella sua produzione a basso costo, o nella speranza indotta da un'immensa popolazione di potenziali clienti. Il jolly di Xi, oggi, sta nel controllare i gangli vitali del mercato delle terre rare; una posizione, questa, assunta negli anni grazie ad accordi con governi stranieri spesso snobbati dall'Occidente (emblematico il caso dell'Africa). La Cina potrebbe facilmente decidere di limitare l'accesso alle Rare Earth per alcuni Paesi, con conseguenze disastrose per le loro economie. La minaccia alla sicurezza occidentale è poi particolarmente grave per un gruppo di minerali noti come elementi delle terre rare "pesanti". Insieme, la Cina e il Myanmar producono il 100% delle terre rare "pesanti" del mondo, principalmente disprosio e terbio.
Sfida al presente
Nel 2022, il Dipartimento della Difesa statunitense ha definito la Cina la sua principale minaccia strategica. Non potrebbe essere altrimenti, date le scintille geopolitiche generate dai rapporti sino-americani. E considerando il fatto che Pechino, come detto, potrebbe bloccare o limitare le esportazioni di terre rare verso gli acquirenti occidentali. Un simile scenario da incubo potrebbe riguardare il futuro elettrico degli Usa. Già, perché l'amministrazione Biden si è sforzata per stimolare la produzione domestica di batterie da impiegare nei veicoli elettrici. C'è solo un piccolo problema: alcune materie prime, alla base della suddetta produzione, si trovano solo all'estero. E la Cina ne controlla la maggior parte della fornitura. Giusto per capirsi, la Cina è pronta a controllare un terzo della fornitura mondiale di litio entro il 2025, ed è anche sede di una delle più grandi risorse di grafite per batterie naturali al mondo, nonché l'unico Paese che attualmente estrae tale materiale in enormi quantità. Il New York Times ha scritto che, nonostante i miliardi di investimenti occidentali, la Cina è così avanti nell'estrazione di minerali rari, nella formazione di ingegneri e nella costruzione di enormi fabbriche, che il resto del mondo potrebbe impiegare decenni per recuperare il ritardo.
La sfida sulle batterie
A proposito di batterie, la Cina controlla ogni fase della produzione di batterie agli ioni di litio: dall'estrazione delle materie prime dal terreno alla realizzazione delle automobili. Ed è probabile che questi vantaggi durino nel tempo. Anche perché le auto elettriche usano all'incirca sei volte più minerali rari rispetto alle auto convenzionali, proprio a causa della batteria. La Cina ha la facoltà di decidere chi può ottenere i minerali per primo e a quale prezzo. Scendendo nei dettagli, Pechino controlla la maggior parte delle miniere di cobalto in Congo, che a sua volta possiede la maggior parte della fornitura mondiale di questo scarso materiale. Numeri alla mano, i cinesi controllano il 41% dell'estrazione mondiale di cobalto e il 28% di litio, oltre al 6% del nichel, il 78% di grafite e il 5% di manganese. Questo per quanto riguarda l'estrazione, poi dobbiamo considerare la lavorazione dei prodotti. Il 95% del manganese viene raffinato dal Dragone, così come il 73% di cobalto, il 70% di grafite, il 69% di litio e il 63% di nichel. La macinazione della grafite provoca inquinamento atmosferico, mentre quella del nichel genera rifiuti tossici che devono essere smaltiti seguendo apposite procedure. Non è ancora finita, perché sempre la Cina produce la maggior parte dei componenti che formano una batteria: il 77% di catodi, il 74% dei separatori, l'82% di elettroliti e il 92% di anodi. Ecco perché smarcarsi dalla Repubblica Popolare Cinese, dopo averle di fatto consegnato la chiave delle catene di approvvigionamento mondiali, non è niente affatto semplice. E neppure conveniente, in assenza di un valido piano alternativo.