Una protesta che inizia alle 12:00 è come un matrimonio ad agosto, fa un caldo di Dio e puoi solo sbagliare outfit. Anche i pantaloni neri sono stati una gran cazzata, ma sono in linea con il resto della gente, comunque vestita malissimo, di fronte alla Stazione Centrale. La prima cosa che faccio è capire perché non scorra la fila in carrozza. Siamo fermi da dieci minuti sul binario ma le porte non si aprono. Qualche mese prima hanno bloccato tutte le vie di uscita per impedire ai manifestanti pro-Pal di sbarcare a Milano, ma suona strano per una protesta annunciata in sale conferenze e già anticipata da un’azione simbolica, e quindi del tutto superflua, proprio all’ex Leoncavallo. Non è stata una genialata allora, non sarebbe una genialata adesso. Scendo e non scoprirò mai perché tutta quell’attesa. La seconda cosa che faccio è raggiungere Gianmarco, il vicedirettore, che aveva nostalgia di casa e cioè dei tempi da cronista. La piazza è ancora vuota e lo porto a conoscere un poeta e militante che sta pubblicando a puntate su Substack, il blog della destra libertaria americana, un romanzo contro il Ponte sullo Stretto di Messina. È la prima volta che ci vediamo dal vivo ma a lui non pare fregare granché. Ci salutiamo, mi gira delle foto e un comunicato stampa, ci dice che non può rilasciare interviste e ci spostiamo. La sensazione è che i più informati tra loro siano in modalità ufficio stampa.


Altra cosa da notare: nove volte su undici (nove su dieci se escludiamo l’intervista a Non una di meno, un gruppo composto da sole donne, anche se per loro il genere è un’imposizione) le persone che fermiamo ci rimandano a un loro referente maschio, che sbrodola a memoria tutti i versi da antologia proletaria imparati i giorni prima. Hanno un vocabolario prevedibile e un tono notarile. Cerchiamo qualcuno con un fare meno impiegatizio e troviamo Piccolo Rhino, un ragazzo a panza di fuori, con un angelo senza braccia che suona la chitarra tatuato all’altezza dello sterno (ci spiega che in Argentina chi faceva rock veniva mutilato). Ha un passamontagna pieno di spillette da balia e due corna verde scuro. Si lecca le labbra e agita una bottiglietta d’acqua, mentre fa video e foto con una macchina fotografica di scarsa qualità. Lui manifesta perché vuole essere libero di esprimersi, ci spiega: “Sono un cantante, sono anche su Instagram. Ma ancora non ho fatto uscire un cazzo. Presto però sentirete parlare di me. Comunque è solo Rhino”. Quel “Piccolo” è una licenza di Gianmarco. Passiamo ai grandi vecchi, uno con un cappellino marrone e una bandiera dei No Tav, arrivato da Torino perché da sempre il Leoncavallo è solidale con loro: “Siamo venuti perché anche a Torino chiudono gli spazi, come un centro social che faceva da asilo nido. Vogliono raccontarvi che siamo noi il problema, ma alla gente preoccupa lo spaccio per le strade, non le realtà culturali come le nostre”. Gli chiedo di Bologna, altra città rossa, dove il sindaco Lepore vuole distribuire pipette per il crack. Mi guarda allucinato e un po’ irritato: “A Torino lo fanno con le siringhe, ma il crack è un’altra cosa, ti rovina il cervello. Non sono tanto d’accordo”. È già una notizia.


Poi andiamo dagli stalinisti, che si sentono eredi della Rivoluzione francese “di fine Seicento” (anche se è stata un secolo dopo) e ci insegnano a fare il pugno: “Con la destra o la sinistra, non importa”. I migliori sono dei mariachi – non sono mariachi, ma delle formazioni musicali argentine e politicizzate, gli chiedo il nome tre volte e non lo capisco – con grandi cappelli, decine di spillette, calze a rete, occhiali alla Mughini e tamburi da sagra di Paese. Eccola, la fanfara della sinistra. Sono gentili come dei catechisti ma indignati come dei parlamentari di Avs. La loro portavoce mi dice cosa farebbe se Beppe Sala si trovasse per caso nel mezzo della manifestazione: “Gli chiederei di ballare. Magari un valzer”. Inizia la protesta, direzione Piazza di Porta Venezia. La musica è la solita, esce dalle casse disposte a muro dentro un camioncino fatiscente, che a metà strada diventerà bar clandestino di GazaCola e birre piccole a cinque euro. La celere è già posizionata, la digos pure. Uno di loro, ne sono quasi certo, aveva dei sandali e già questo dice tutto di come sarebbero andate le prossime ore. Alla testa del corteo, capeggiato da quindici-sedicenni con shorts cortissimi, magliette con slogan e bandiere della Palestina, si alternano gli urlatori e fanno partire i cori. Il più interessante è l’intervento su Gaza, quando un ragazza inizia a ripetere slogan in arabo che nessuno capisce. Dalla processione, però, rispondono all’unisono tutti, più o meno biascicando qualcosa di finto e sicuramente falso. Una ragazza ha una maglia con una frase in arabo, le chiedo cosa significa: “Non lo so, c’entra con Free Palestine”. È forse il miglior esempio di razzismo solidale e attivismo eurocentrico.


Il migliore è comunque lui. Un ninja con la maglietta “Antifa”. Siamo arrivati al cantiere del Pirellino e qualcuno in prima fila inizia a coprirsi il volto. Srotolano un cavo per l’energia e si avvicinano all’ingresso del cantiere. Il corteo è fermo, l’urlatore continua a urlare, ma alcune persone iniziano a chiudere un semicerchio intorno alla pussy riot fucsia che ha deciso di tagliare le catene del cancello ed entrare nel Pirellino. Lo intuisco un attimo prima degli altri e mi avvicino. Davanti ci sono solo la grata dei lavori e pochi militanti, che iniziano a chiamare i compagni. Si avvicinano anche loro, con le bandiere antifa. E iniziano a darmele sulle mani che tengono il cellulare in alto. Provo a riprendere tutto, mentre quattro attempati giocano ad acchiappa la talpa con le mie nocche. Finché non arriva lui, Naruto. Capelli lunghi uniti in una coda, grigi e bianchi, come il nylon. Fa due mosse strane con le mani, all’inizio sembra voglia farmi solletico. Invece sono spintoni, mi becca un capezzolo e lo strizza. L’altra mano va sotto l’ascella, peggio per lui dopo due ore di corteo. Mi allontano e, sempre con le mani in aria, gli dico di non toccarmi: "Stiamo facendo il nostro lavoro come voi il vostro”, gli dico. Mi risponde che non devo riprendere le facce, ma sono tutti mascherati. Il mio iPhone passa sopra a una carnevalata di passamontagna fucsia e fumogeni rosa, come una piccola distesa di fenicotteri. Ma non gli basta. Arriva la compagna, che ha il dente avvelenato con i giornalisti dai tempi del Covid, e inizia a ballarmi davanti:
“La libertà, la dignità, conquistala. Oggi non c’è profitto che tenga. Non ce ne frega nulla se stai lavorando”.
“Ma signora, i giornalisti che profitto vuole che cerchino”.
“E allora protesta”.
“Lo stiamo facendo, a modo nostro. Si chiama informazione”.
“Non esiste l’informazione oggi, o manifesti o sei uno di loro”.
Ma io come Beppe Sala o l’architetto miliardario non mi ci sento. Guardo i due Gianmarco con me e neanche loro somigliano granché ai colletti bianchi dell’Upper… Side meneghino.


È un buono spaccato di come vedano il giornalismo dall’interno. In effetti tra le realtà militanti si salvano solo due tipi di attività culturale: le riviste di settore e le riviste militanti. Il giornale di cronaca, il quotidiano generalista, è il nemico. E forse hanno ragione, perché alla fine tutti possono leggere la cronaca e farsi un’idea e tutti possono falsificare le notizie. I fatti non si raccontano, diceva Derrida, si inventano. E fanno bene a non fidarsi, allora, perché la cronaca è così democratica che non possono gestirla come farebbero con un organo di partito. La rivoluzione ha bisogno della censura e del controllo dell’informazione esattamente come aveva bisogno delle ghigliottine. Liberare gli altari dai preti e i preti dalle loro teste. Non si è mai detto nulla sul liberare il popolo dagli altari.


Questi comunque sono i grandi vecchi. I giovani non ne sanno nulla. Colpisce l’ingenuità dell’azione. Abbiamo superato il palazzo della Regione Lombardia, ovviamente blindato, e pochi metri dopo stanno facendo la rivoluzione rosa senza che nessuno intervenga. Salgono indisturbati, gettano la vernice rosa sulle impalcature, la metà finisce a terra, sopra la testa degli altri compagni. La gente da sotto applaude e galvanizzati dal successo di quest’ennesima dimostrazione simbolica, aprono il cantiere a tutti. Anche a tre giornalisti, io e i due Gianmarco. Anzi, ci passano lo scotch per “impacchettare l’edificio” e bloccare alcuni degli ingressi secondari. Una ragazza, forse di sedici anni, ci chiede cosa può impacchettare. Siamo sotto al cantiere, ci separano dai nostri colleghi i bagni chimici della ditta. Se giri intorno al palazzo puoi vedere anche il giardino verticale, quella disumana schifezza architettonica che, giustamente, viene criticata più volte durante la protesta. La vista di quel grattacielo irsuto è comunque l’esperienza più violenta del momento. La sola vista è peggiore di tutte queste azioni vandaliche, perfettamente prevedibili e gestite. Molto rumore, e colore, per nulla.


Usciti da lì la protesta è bella che finita. Il resto è un tirare lungo fino a merenda, quando nella piazza si mischieranno con i rappresentanti politici. Cento, mille, diecimila. Alle fine pare fossero in 25 mila per una causa giusta, quella di chi chiede un’altra Milano, diversa e più complessa, che non sia solo quel blocco monolitico di corruzione, abuso edilizio e indifferenza verso i più deboli. Ma una battaglia tanto importante può essere ancora una parata? Certo, dall’estetica agli slogan, i ragazzi in piazza rivendicano una storia, che è da sempre in contrasto con l’etichetta borghese. Ma dov’è la strategia? Il gusto per la vittoria? Slogan, teatrini e vestiario che dovrebbero dare dimostrazione di eccentricità, di una forza collaterale al sistema. E invece fanno da controcanto a una narrazione del potere che li vorrebbe disordinati, comici e, quindi, innocui. Sono ciò che i potenti vorrebbero e non sanno immaginare un’alternativa. Persino nei gesti simbolici, come quello del Pirellino, è tutto concordano e inutile. Un po’ di vernice e qualche striscione dentro un cantiere lasciato “libero” di proposito. Quando la gente, dopo l’azione dimostrativa, ha iniziato a defluire, noi siamo rimasti lì. Avevamo visto un ragazzo con un gilet giallo. Abbiamo aspettato. Ci siamo presentati, lui, sui vent’anni, e il suo collega, sui quaranta, sono egiziani, sostengono la causa palestinese e sono molto gentili. Per un momento forse si sono sentiti parte di qualcosa, grazie ai ragazzi che manifestavano. Ma prima di andarcene gli chiediamo se si aspettassero quanto accaduto: “Sì, ieri il capo ci ha chiamato per chiederci di venire a fare servizio di sicurezza. E siamo venuti”. Lasciato a qualche metro di distanza il palazzo della regione, i militanti hanno agito indisturbati senza che un solo poliziotto facesse la finta di avvicinarsi. Un teatrino non solo tollerato, ma permesso dalle forze dell’ordine, evidentemente o previsto o persino concordato.



Pensando alle Brigate rosse, Giorgio Bocca, che aveva vissuto la Seconda Guerra Mondiale, scriveva: “Mi viene come un'ondata di tenerezza, perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile, ma viene raccontata con tanta buona volontà che proprio non si sa come contraddirla”. Noi abbiamo visto la stessa buona volontà, gli stessi occhi incantati di chi crede alle favole, la stessa rabbia incondizionata e disordinata, ma così poco efficace… E ci chiediamo se le cause sostenute, l’intelligenza di chi ogni giorno lotta ed lì, non meritino di meglio. Un sogno di una cosa, sognato meglio.

