Corso Buenos Aires, strada milanese che dall’evocativo Piazzale Loreto porta a Porta Venezia, e di lì, proseguendo diritti, via via fino al Duomo e poi ancora al Castello Sforzesco, è la via con più negozi al mondo. Questo, suppergiù, è quanto mi hanno detto ventisei anni fa, quando proprio in questa parte dell’anno sono arrivato per la prima volta in città, per altro direttamente per venirci a vivere, e proprio da queste parti cercavo casa. Non che fosse un particolare incentivo a scegliere questa zona, il fatto di avere più negozi che in qualsiasi altra parte, non sono particolarmente amante dello shopping e più che altro ero sin da subito rimasto folgorato da questa via, per il fatto che fosse piuttosto animata, viva, faccenda più che evidente anche a occhio nudo, senza didascalie, piena di gente, anche di traffico, certo, a ogni ora del giorno e della notte. Una via da metropoli, in pratica. Il fatto che da quelle parti, per altro proprio arrivando dalle parti di Porta Venezia, lì dove comincia in qualche modo il centro di Milano, ci fosse un quartiere quasi totalmente africano, i ristoranti eritrei, i parrucchieri che trattano pettinature afro, negozi di vestiti e chincaglierie varie a fare quella che in zona chiamavano la Casbah, rendeva ai miei occhi di provinciale appena arrivato in città Corso Buenos Aires il posto più affascinante possibile, qualcosa che mi faceva venire in mente Londra, Parigi, sicuramente non la mia Ancona. Ancona che negli anni successivi, a dirla tutta, ha cominciato a confrontarsi con i migranti, oggi ci sono quartieri africani, come cingalesi, i quartieri si sono spopolati di italiani, la destra ha vinto per la prima volta le elezioni, insomma, ci si è “pensati nazionalisti”, esattamente come qui trent’anni fa, ma questa è altra storia.
Comunque, Corso Buenos Aires era un posto pulsante di vita, qui c’era la scuola con il maggior numero di stranieri in Italia, fiore all’occhiello dell’inclusività meneghina, non a caso presidiata da una piccola sede di Forza Nuova, poveri cretini, promossa ogni anno sui TG nazionali il primo giorno di inizio lezioni, anche se negli anni ci sarà la scuola dentro il Parco Trotter, non troppo distante, dalle parti di Via Padova, sempre a ridosso di Piazzale Loreto, a rubarle il primato, e qui, appunto, c’era il più alto numero di negozi al mondo. Ovviamente era una menzogna, detta da un qualche padrone di casa che provava a piazzarti un affitto non esattamente congruo con la zona. Corso Buenos Aires non può essere la strada con il più alto numero di negozi al mondo perché è lunga solo un chilometro e duecento metri, ce ne sono lunghe anche dieci chilometri, figuriamoci. È semmai, ma anche qui il record è tutto da confermare, quello con il maggior numero di negozi relativo alla lunghezza, trecentocinquanta, recitano i siti che ci raccontano la sua storia, appunto per poco più di un chilometro. Io, comunque, ai tempi mi sono lasciato convincere senza opporre resistenza, e per otto anni ho vissuto in via Tadino, prima parallela al corso, in direzione della Stazione Centrale, all’altezza di piazza Lima. Piazza Lima, per i poco pratici, è suppergiù la metà precisa del corso, non a caso Lima è la fermata che si trova tra Loreto e Porta Venezia, sulla MM1, la linea rossa della metropolitana che corre qui sotto. Otto anni che ricordo con grande affetto, perché Corso Buenos Aires è una via davvero unica, un fiume in piena di input, un fiume in piena che, nel corso già di quegli otto anni, ci ho abitato tra il 1998 e il 2006, ha cominciato a cambiare forma, non avessi allestito il paragone con un fiume avrei detto che ha cominciato a cambiare pelle, come un rettile. Le zone più etniche, per dire, hanno cominciato a infighettarsi, la zona intorno a Via Lecco, dove un tempo si trovava il lazzaretto di manzoniana memoria, è diventato il Gay District di Milano, con tutta una serie di locali a tema, Via Benedetto Marcello, via dove nei miei primi anni milanesi mi era stato consigliato caldamente di non lasciare la macchina parcheggiata di notte, perché me la avrebbero rubata, dicevano, era una Fiat Punto Blu, non una Lamborghini, o mi ci avrebbero dormito dentro, fatto che in effetti è accaduto una notte che l’ho sbadatamente parcheggiata proprio in corso Buenos Aires, ha poi ospitato un garage sotterraneo da cinquantamila euro a box, tutti i palazzi sono stati tirati a lucido e riportati a un antico fasto che forse non hanno neanche mai avuto in precedenza, e è diventata una zona elitaria, chic.
La vicina via Settala, quella un tempo presidiata dalle prostitute oversize di origine turca che tanto hanno affascinato Vinicio Capossela al suo arrivo in città da prenderci poi casa, lui che un tempo ho conosciuto nella vecchia sede di Marcos y Marcos, lì vicino a via Petrella, via Petrella dove lo stesso Capossela si è aperto il suo studio di registrazione personale, ultimo vessillo di qualcosa che probabilmente ormai appartiene solo alla memoria di chi ci è capitato sul volgere del Novecento, il futuro o il futuro di Milano è altra faccenda. Corso Buenos Aires è cambiata. A sua volta tirata a lucido, negli anni hanno chiuso un po’ tutte le librerie storiche, quella del Corso, la Puccini, quella di libri usati dentro una delle gallerie, sostituite da marchi di moda, non certo alta moda, ma comunque decisamente più accattivanti, come accattivanti sono state le varie catene spuntate come funghi, H&M, Zara, Oviesse, Upim, Desigual, Bersha, Pimko. Certo, la cultura è uscita dalla porta ma è rientrata comunque, dalla finestra. In quello che per anni era stato un spazio semiabbandonato è anche arrivato il Teatro Elfo Puccini, ospitato appunto nella galleria Puccini, proprio a fianco di una libreria Feltrinelli, dando alla zona quel tocco di cultura che decisamente non guasta, la presenza in zona dell’Assessore Maran, molto attento al green, come del resto tutta la giunta Sala, e a lungo impegnato in assessorati legati all’urbanistica, ha portato all’ideazione e poi realizzazione di una lunga pista ciclabile, portando non solo gente a passeggio, ma anche in bicicletta a attraversare quel quartiere. Dall’altra parte di Piazzale Loreto, del resto, negli ultimi anni è sputata NoLo, invenzione di un qualche giornalista residente in zona che ha deciso che se a Londra c’era SoHo, il quartiere che appunto sorge a Sud, South in inglese, di Holborn, quartiere un tempo abitato da artisti e letterati, penso a Gabriel Dante Rossetti, Elizabeth Siddal e John Ruskin, Milano poteva avere il suo quartiere a Nord di Loreto, NoLo, appunto. Un quartiere che in realtà non esisteva, includeva alcune vie tra via Venini e la stessa via Padova, viale Monza nel mezzo, zone non certo agiate, ma che col tempo è diventato un luogo cool, pieno di localini giusti, con un po’ meno latinos che si prendono a bottigliate nel cuore della notte e un po’ più tavoli da ping pong messi a bordo strada dal Comune, esempio concreto di gentrificazione che non poteva non portare al progetto che a breve vedrà metà di Piazzale Loreto tagliata fuori dal traffico d’auto, e l’inizio di via Padova diventare una sorta di nuova Piazza Gae Aulenti, con grande vantaggio per chi ha comprato qui casa tempo fa, quando ancora costavano decisamente poco proprio per quella forte presenza di stranieri che, parlo sempre di quando sono arrivato io in città, vedevano proprio in via Padova il luogo nel quale il sindaco Albertini voleva portare la sua Tolleranza Zero. Insomma, la via con più negozi al mondo, il quartiere più cool di Milano, presto arricchito da un redesign di Piazzale Loreto, la piazza sottoelevata, sull’ammezzato della metropolitana, le terrazze con giardini, insomma, fino qui tutto bene.
Tutto bene fino a un certo punto, perché, incuriosito da questa scelta, anch’essa green del Comune di togliere tutti i posti auto lungo Corso Buenos Aires, già ridotta la carreggiata per la presenza delle due corsie della pista ciclabile, pista ciclabile ora definita da un muretto alto dieci centimetri e largo almeno trenta, così da impedire gli odiosi parcheggiatori con le doppie frecce, il limite di 30 km orari che Sala vorrebbe portare a tutta la zona centrale e semicentrale, Parigi val bene una messa, mi sono detto “sarà mica il caso di vedere quanto il passeggio e quindi il commercio se ne sarà avvantaggiato?”, andando quindi a percorrere il chilometro e duecento metri di marciapiedi che da Loreto portano a Porta Venezia, a piedi, per poi tornare a ritroso, sul marciapiede opposto. Andata lato destro, ritorno, guardando il centro, lato sinistro. Ora, vi ho già detto che, storicamente, il cuore di Corso Buenos Aires è Piazza Lima, punto di incrocio tra il corso e le popolari via Vitruvio e via Plinio, e che, di conseguenza, la parte più popolosa, di negozi e di viandanti, è quella che sta tra Piazza Argentina, verso fuori, e viale Tunisia, verso il centro, poste a grandi linea a distanze simili da questo punto. Qui ci sono sempre stati i principali negozi, anche quelli più popolari, Corso Buenos Aires non è via della Spiga o via Montenapoleone, e neanche la più chic Corso Vercelli, altra via piena di negozi, è una zona piuttosto popolare, non periferica ma popolare. Bene, anzi male, malissimo, la strargrande maggioranza dei negozi che si incontrano superata piazza Argentina, infatti, non sono più negozi. Sono vetrine abbassate, a andare bene, altrimenti sono cartonati messi a coprirle, vetri impolverati e sporchi che lasciano intravedere spazi lasciati vuoti, esercizi che hanno chiuso definitivamente i battenti. Non dico tutti, ma una buona metà, forse anche di più, dei negozi di questa parte di Corso Buenos Aires, specie nel marciapiede di sinistra, sono chiusi, a data da destinarsi. Una catacombe, che mette tristezza, anche perché, è inevitabile, i marciapiedi sono molto più vuoti di quanto non sarebbero stati con negozi da andare a visitare. E dire che a lato della pista ciclabile hanno disegnato una sorta di protesi del marciapiede, un surplus di asfalto dedicato ai pedoni, che però al momento sono pochi, e tutti di fretta, qui non c’è nulla da fare. Hanno chiuso negozi singoli, certamente, ma anche alcune catene, penso a H&M, che resta con un presidio in zona molto più piccolo, Combipel, Euronics, Portobello, Pimko, Desigual. Tante catene che hanno mollato il colpo, magari incentivate dal lock down, ma sicuramente sintomo di uno stato di salute di Milano non certo incoraggiante. Al loro posto il nulla, o magari qualche temporary shop, qualche outlet con già la data di scadenza scritta in vetrina, a volte i cantieri per prossime aperture ventilate, ma che non vedono quasi mai la luce, un marchio che appare per poi scomparire, presto sostituito da un altro marchio che subirà la stessa sorte. A storicizzare la faccenda, va detto che il primo isolato a chiudere, quando ancora io abitavo in zona, è stato quello confinato da via Petrella, il palazzo che ospitava un tempo la Galleria Buenos Aires. Lì dentro c’era una sorta di laghetto, coi pesci rossi e le tartarughe, dove spesso portavamo nostra figlia, allora unica, oggi maggiore di quattro fratelli, quella Lucia, ventidue anni, che spesso lavora con me, all’epoca di due anni, si divertiva molto a vedere i pesci nell’acqua, poi, si dice, Giorgio Armani ha comprato tutto l’edificio, pensando di farci non so bene cosa. Risultato, è rimasto tutto chiuso a lungo, prima nella speranza di uno sviluppo, poi nel degrado più totale. La polvere, le scritte sui cartonati posti a chiudere le vetrine, infine qualche clochard a cercare rifugio negli anfratti. Poi di colpo l’isolato è tornato a farsi vedere, alcuni negozi hanno aperto i battenti lì dentro, anche se non tutto è tornato a vivere, mentre tutto intorno arrivava la morte.
Ora quell’edificio rischia di essere il solo con negozi in questa parte di Corso Buenos Aires, per il resto in balia di disperati che chiedono l’elemosina, gente che sarebbe potuta finire proprio nel brano a Corso Buenos Aires dedicato da Lucio Dalla, nell’album Come è profondo il mare, anno 1977, brano che narra una vicenda violenta, di povertà e emarginazione, la storia di un senzatetto arrivato in città col figlio e costretto a vivere di espedienti in strada, proprio da queste parti. Un padre di famiglia che poi diventerà un delinquente nei racconti dei passanti, inseguito dalla polizia, “Io l’ho visto da vicino, gli occhi erano due sputi, la faccia era gialla, una faccia da assassino”, e ancora “Dev’essere uno slavo che dorme e ruba alla stazione, quegli occhi senza luce, è senz’altro un mascalzone: chiamiamo un pulismano, ho appena visto l’assassino dar fastidio a un bambino”. Dalla, del resto, che passò del tempo proprio da queste parti, quando si ritrovò a lavorare con Renzo Zenobi e Francesco De Gregori, oltre che a Ron, a quel terzetto delle meraviglie che risponde al nome di Come è profondo il mare, Lucio Dalla e Dalla, a Milano dedicò una canzone omonima, ancora oggi attualissima, oltre che pregna di una poesia difficile da ritrovare altrove. Oggi di disperati se ne vedono tanti, come anche nel resto di Milano, il tizio con la maschera da scimmia perennemente a coprire il volto che si trova dopo l’incrocio con via Piccinni e via Pergolesi, seduto immobile a aspettare il gesto propositivo di qualcuno, è forse il più famoso, potere di una maschera, dopo che a lungo lo era stato il tizio coi capelli arruffati e la pancia prominente che dormiva di fianco alla vetrina della Chicco, pochi metri più in là, dalla parte opposta della carreggiata, contraltare perfetto a una strada che, nel suo essere identitaria, sta gettando un’ombra inquietante sul futuro di Milano. Il fatto che avvicinandosi in centro i negozi abbiano retto meglio, nonostante lo smart working lo abbia svuotato, si è premurato di farci sapere il sindaco Sala, lì a frignare per lo svuotarsi dei bar dei tanti lavoratori che hanno lasciato vuoti gli uffici di San Babila, i cartelloni che annunciano la prossima apertura di Victoria’s Secret dalle parti di viale Tunisia specchio per le allodole, dove le allodole, di questi tempi, se ne stanno tutti proprio a San Babila, a fare foto ai tipi buffi che animano la Fashion Week, ci racconta di come Milano stia sempre più diventando una città che guarda solo verso l’Area C, le aree fuori dalla cinta della circonvallazione a interessare chi muove il Comune solo se edificabile e comunque adeguabile a standard sempre più elitari e alti. Poco conta che i marciapiedi, come anche quelle periferie gentrificate, si spoglino di persone, il problema viene indicato in Airbnb e negli affetti brevi, non certo in una tendenza al rialzo della città “vicina all’Europa”, come cantava appunto Dalla in Milano, scritta quarantaquattro anni fa, ma attuale in maniera quasi agghiacciante.
Un tempo qui era tutta campagna, avrebbe detto qualcuno dedito ai motti popolari, o magari il Mogol che metteva in bocca a Lucio Battisti racconti di campi di grano in realtà dalle parti da casa mia, tra Casoretto e Lambrate, lì dove corre la vecchia ferrovia, dove si trova il cinema (un tempo) di periferia, una zona che ovviamente un bravo venditore di case racconterebbe come Città Studi, il Politecnico lì a due passi, volendo anche l’ombra lunga di NoLo ad 4arrivare fin qui, chissà se prima o poi a Sala riuscirà di togliere i parcheggi lungo la strada anche da queste parti, in questa sua folle idea di rendere le auto in città qualcosa di deprecabile, osceno, come le sigarette dentro i ristoranti o i cinema, la gentrificazione qui è già cominciata da anni, senza neanche bisogno di stare a fare chissà che operazione di guerrilla marketing, è bastato cominciare a alzare affitti e prezzi delle case, in fondo in dieci minuti da qui si arriva a piedi in Corso Buenos Aires, vista la carenza di pedoni neanche si corre il rischio di dover rallentare il passo, la spesa la andremo tutti a fare nelle cittadelle artificiali che ospitano gli outlet vicino ai caselli delle autostrade, la più vicina è a Segrate, ma anche a Melegnano se ne trova uno piuttosto grande, si tratta solo di cambiare le nostre abitudini, o adeguarsi ai nuovi mood, ineluttabile e imprendibile come Milano è sempre stata, “tre milioni e il respiro di un polmone solo, che è come un uccello, gli spari, lo manchi riprende il volo”.