Svegliarsi, controllare i messaggi, le notizie. Parlare con la tua ragazza, i suoi genitori. Rileggere gli orari dei messaggi, ricostruire i percorsi. Rileggere le notizie, fare calcoli. Il tutto per realizzare una sola cosa: è andata schifosamente bene. Ho festeggiato il Capodanno a New Orleans, città meravigliosa sotto ogni punto di vista. Il risveglio, dolcissimo, senza neanche i postumi di una serata esagerata, ha cominciato a incrinarsi con i messaggi di mio padre: chiedeva di chiamarlo, diceva di essere preoccupato.
Per qualche secondo, ancora rincoglionito, mi sono chiesto per quale motivo mi avesse scritto così. Poi uno sguardo al Corriere, uno al New York Times e la scoperta, agghiacciante, che nella stessa città in cui avevo appena trascorso il Capodanno più bello della mia vita c’era stato un attentato. Dieci i morti dichiarati nell’immediato, quindici a fine giornata in aumento. Uno choc, che di per sé è già forte come ogni volta che si legge di un attentato. Il fatto di essere in quella stessa città ha reso tutto straniante, ma è solo l’inizio.
La via in cui il pick-up si è fiondato a tutta velocità è quella in cui avevo passato tutta la serata, dopo la mezzanotte, con la mia ragazza. Bourbon Street per la precisazione. La via principale, insieme a Frenchman Street, del quartiere francese di New Orleans. Un vialone lungo e stretto pieno di locali, di persone, di matti, di alcol, di erba. Di vita. Fino alle 3.15, orario in cui la follia di un uomo ha deciso di portarci morte e terrore. Io, la mia ragazza e i suoi genitori alloggiavamo in un appartamento in 127 Carondelet Street, più o meno a cento metri dalla via dell’attentato. Dopo una serata leggera, divertente e piacevole siamo rientrati relativamente sul presto a causa del check-out che ci aspettava la mattina successiva. Col senno di poi è stata la fortuna della mia vita.
Penso all’orario dell’attentato, al fatto che tra le 03:00 di notte e le 03:10 stavo scambiandomi messaggi con un mio amico.
Ho il ricordo nitido di aver scritto quei messaggi per strada, all’angolo tra la via di casa mia e Canal Street, uno dei viali principali della città.
Quello da cui il pick-up si è immesso nella strada in cui ha compiuto l’attentato.
L’attentato si è verificato alle 03:15.
Siamo tornati a casa per quella via.
Una volta a casa, dopo pochi istanti abbiamo sentito una pioggia di sirene. Niente che ci abbia fatto presagire qualcosa di grave, perché New Orleans è piena murata di polizia. Un qualcosa che, ironicamente, ci faceva sentire sicuri. La città non dà la sensazione di essere pericolosa, ma come ovunque negli Stati Uniti i senzatetto in giro sono diversi, la microcriminalità esiste. E in serate come l’ultimo dell’anno, in cui droghe e alcol circolano più del solito, trovarsi con diversi agenti attorno fa stare più tranquilli, soprattutto perché giravo con la mia ragazza.
Le sirene però non smettono di suonare, anzi. Così mi sono affacciato sul balcone della nostra camera, una vista privilegiata sulla via dell’attentato. Ho osservato gli agenti rimuovere le auto dal parcheggio. “Sarà un coglione in divieto di sosta”, ho detto alla mia ragazza tornando a letto.
E ancora, prima di addormentarmi: “Il soft power ha rotto il cazzo”. Una battuta che facevamo in continuazione, scherzando proprio sulla grande quantità di polizia per le strade. Poi il sonno ha preso il sopravvento, gli occhi si sono chiusi per qualche ora finché eccomi lì, col telefono in mano a realizzare il tutto. Da compiangere sono le vittime, eppure eventi come questo ti fanno sentire piccolo, impotente, un po’ spaesato. Una sigaretta in più, un imprevisto, un qualsiasi evento che ci avesse fatto perdere cinque minuti e forse non avrei potuto scrivere queste parole. In un locale, poco prima di andarcene, abbiamo chiacchierato con una ragazza della Louisiana che aveva vissuto un mese a Perugia. A un certo punto è dovuta uscire perché un suo amico era stato sbattuto fuori dal locale. Se non fosse successo, magari, quei cinque minuti di più sarebbero passati. La mia mente continua a girare attorno a quel luogo, a quell’ora. La sera prima per esempio. Ci eravamo fermati a mangiare del pollo fritto nella via dell’attentato. Se ci fossimo fermati… Faccio altre ipotesi: sliding doors, butterfly effect. Prima di finire a chiacchierare con quella ragazza ci eravamo intrufolati in un jazz bar, a New Orleans ce ne sono a centinaia. Atmosfera fantastica, arredamento anni ’20, musica meravigliosa. Ricordo di aver cercato la mia ragazza, Gaia, e averle detto che stavamo facendo una vita bella, piena: “A 24 anni a fare il Capodanno a New Orleans. Ci lamentiamo sempre di cazzate alla fine”.
È dal decollo che pensavo a scrivere di questo viaggio.
Doveva essere un diario, magari un confronto con quanto vissuto a New York qualche mese prima. Uno spaccato di due Americhe. Mai mi sarei sognato di ritrovarmi invece a scrivere il contorno di un attentato sotto casa, a cinque minuti dalla mia vita. Ma grazie a Dio, o chi per lui, sono qui. Con una fortuna sfacciata e un pezzettino di New Orleans addosso per sempre, assieme al ricordo di quelle persone che se ne sono andate per un nulla.