La puntata di Report, dedicata al rapimento e uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, ci ha confermato quanto il comportamento del Vaticano nei confronti di “eventi” simili sia sempre uguale. Un approccio standard. In fin dei conti le stesse dinamiche si riscontrano anche nel caso di Emanuela Orlandi, cittadina vaticana scomparsa nel 1983. Il comune denominatore è la tendenza di chi indaga nel diventare poi, a indagini chiuse, dipendente o persona vicina al Vaticano. Nello specifico parliamo del Commissario Enrico Marinelli e del Procuratore Giuseppe Pignatone, in prima battuta rispettivamente impegnati sui casi Moro e Orlandi. Poi la metamorfosi di carriera: Marinelli Prefetto responsabile della sicurezza di Papa Giovanni Paolo II, mentre Pignatone Presidente del Tribunale Vaticano. Mica male. Ma come entra in ballo la Santa Sede nel caso Moro? Poco dopo il rapimento una fonte anonima suggerisce di cercare nel raggio di 2 km da via Fani, luogo dell’agguato, in zona Balduina, Trionfale e Cassia, indicando che il condominio in cui si trovava Moro aveva un ascensore che partiva direttamente dai garage. Indicazioni che condussero in via Massimi 91, complesso di due palazzine di proprietà dello IOR, la banca del Vaticano. Stabile mai perquisito, non contando però le frequenti visite fatte da Marinelli al portiere, come raccontano i figli dell’uomo, durante i 55 giorni del rapimento. Tra i residenti l’arcivescovo Paul Marcinkus, al tempo dei fatti presidente dello IOR, una figura che ricorre spesso nella vicenda di Emanuela, e legata al crac del Banco Ambrosiano, ma che la magistratura italiana “non riuscì” a condannare. In via Massimi 91 c’era anche il cardinal Egidio Vagnozzi, che ospitava cene di carattere diplomatico, a cui tra gli altri parteciparono sia Andreotti che lo stesso Aldo Moro. Colloqui riservati con il Segretario della DC, di cui raccontano i figli del portiere a Report. Il costruttore del plesso era Luigi Mennini, padre di Don Antonio Mennini, a cui Moro affidò le sue lettere durante la prigionia. C’era molto di vicino al Vaticano nel luogo in cui potrebbe essere passato Moro. Un legame che non poteva di certo finire su carta. Come mai non fu ordinata nessuna perquisizione? Come mai chi avrebbe dovuto ordinarla ha proseguito la sua carriera in quel di San Pietro?
Qualche anno dopo stessa storia. “Possiamo stare tranquilli, è arrivato il procuratore nostro, ci penserà lui a far tacere Orlandi che sta facendo un casino, ha già cacciato Capaldo e messo i suoi e poi ha assicurato ai miei avvocati che archivia tutto”. A pronunciare queste parole la moglie di Enrico De Pedis, boss della Banda della Magliana, in un’intercettazione telefonica con Mons. Vergari, rettore della Basilica di Sant’Apollinare. Siamo nel 2005 quando una telefonata alla redazione di Chi l’ha visto riaccende l’attenzione sulla tomba di De Pedis, noto criminale romano che si verrà a sapere sepolto in una delle più belle chiese della Capitale. Assurdo ma vero, considerando che anche le figure ecclesiastiche di maggior spicco difficilmente ottengono una sepoltura simile. L’ipotesi generata dalla telefonata era quella di un collegamento con il caso di Emanuela, nonché la prova dell’esistenza di un legame tra Stato Vaticano, Stato italiano e mafia. Era quindi molto importante che si indagasse su quella tomba. Si scoprì poi che la sepoltura del boss era stata richiesta da Vergari, la cui autorizzazione fu concessa dal Vicario di Roma il cardinal Ugo Poletti. Ma non finisce qui. Per consentirne la sepoltura in un luogo simile fu stilato un elenco di opere di bene svolte da De Pedis, confermate poi da Vergari. Nel pratico il boss della Banda della Magliana fu fatto passare come un benefattore dei poveri della parrocchia. Volere è potere, no? Quando c'è la "mano divina". Non dimentichiamo che Emanuela scomparve proprio da Sant’Apollinare, dove frequentava la scuola di musica. Sempre lì c’era l’ufficio di Oscar Luigi Scalfaro, molto amico di Poletti e Vergari, che a loro volta conoscevano bene De Pedis. Un intreccio entusiasmante tra Stato, Chiesa e Mafia.
Capaldo, procuratore che indagava sulla scomparsa di Emanuela, ricevette la visita di Giani e Alessandrini, capo e vicecapo della Gendarmeria Vaticana, che gli dissero che la questione della tomba di De Pedis stava imbarazzando la Chiesa, chiedendo poi che dell’eliminazione del sarcofago se ne occupasse lo Stato italiano. Capaldo accettò di discuterne ma chiese qualcosa in cambio: informazioni su Emanuela. I due emissari accettarono, purché la procura avesse imbastito una storia verosimile che allontanasse ogni responsabilità dal Vaticano. Eppure, dopo quel momento, i due gendarmi sparirono. Capaldo decise allora di rendere una dichiarazione all’Ansa: “Ci sono personaggi in Vaticano che sanno. Io non faccio procedere all’apertura della tomba per il momento, perché non lo ritengo utile ai fini dell’indagine”. Parole ovviamente dirette a Giani e Alessandrini, affinché comprendessero che il patto non esisteva più. Poi il rovescio della medaglia. Giuseppe Pignatone, nuovo capo della procura, prese le distanze da quanto dichiarato da Capaldo: “La tomba, sarà aperta”. E dopo cosa successe? L’indagine sulla scomparsa di Emanuela archiviata e lui promosso direttamente in Vaticano.
Uno stato così piccolo, ma con un potere così grande. La verità, in fondo, è davanti agli occhi di chi la vuol vedere.