Sardegna ingrata, per la Lega. Ma con un retrogusto di amara soddisfazione. Perché se da un lato la sconfitta del centrodestra è imputabile anzitutto alla scelta della Meloni di puntare sulla persona sbagliata, quel Paolo Truzzu finito umiliato nella sua stessa Cagliari, dall’altro proprio questo fatto dà ora il destro a Matteo Salvini per porre con maggior forza la questione delle candidature alle regionali che verranno, quelle che davvero gli interessano. Ovvero una: Luca Zaia in Veneto. Il recente siluro parlamentare di Fratelli d’Italia contro il terzo mandato per i presidenti di Regione non basterà a contenere l’appetito di rivincita di un Carroccio che può a buon diritto rinfacciare al principale alleato di mettere a rischio l’intera coalizione, se ancora si impunterà su personaggi privi di appeal elettorale pur di marcare la superiorità sul socio minore leghista. La prima conseguenza del voto sardo, quindi, sarà un ritorno alla carica per cercare di blindare la rielezione del governatore veneto nel 2025. Per due motivi: il primo, ovvio, è mantenere sotto le insegne della Lega una roccaforte strategica com’è il Veneto, tradizionale serbatoio di consensi. Doppiamente prezioso in questi tempi magri, per un partito che soffre la sudditanza a livello nazionale verso quello della Meloni (secondo gli ultimi sondaggi, lo scarto fra i due resta altissimo: 27% a 8%).
Il secondo motivo è più celato, ma non meno forte: in teoria, Zaia rappresenta per Salvini l’unica personalità spendibile come alternativo alla sua leadership. Con quell’enorme seguito personale di cui gode sul territorio e il gradimento (anche trasversale) di cui beneficia in tutto il Paese, è il solo nome davvero insidioso, per il declinante Capitano. Tanto più che, confinato com’è oggi il bacino leghista al solo Nord delle origini, chi rumoreggia all’interno lamentandosi della brutta china su cui sta scivolando il partito non può che guardare a un leghista vecchia maniera come Zaia, per cambiare rotta. Inchiodarlo per altri cinque anni a Venezia (anche, eventualmente, come sindaco, succedendo a Luigi Brugnaro) sarebbe un’assicurazione sulla vita, per Salvini. Questo sulla carta, perché c’è da mettere in conto un altro fatto, sottovalutato da chi conosce poco Zaia: il doge, per carattere e indirizzo di fondo, ha sempre scrupolosamente seguito la regola di evitare qualsiasi scontro dentro il partito. Ora, la sola eventualità che potrebbe realmente rendere fattibile la sua ascesa al posto di Salvini sarebbe che quest’ultimo si dimettesse da segretario all’indomani delle europee di giugno. È opinione unanime che dalle urne per Strasburgo (in cui si voterà con sistema proporzionale: tot crocette, tot percentuali, senza strane alchimie) la Lega uscirà con le ossa quanto meno fragili e ammaccate. Se non proprio rotte, dovesse essere superata da Forza Italia (che la marca stretta, a quanto pare, attestandosi al 7%). In caso di tonfo, il vicepremier e ministro dei Trasporti si troverebbe oggettivamente a dover rendere conto di un biennio al governo che, dal punto di vista leghista, si è rivelato un flop. A parte il nuovo codice della strada, non si registrano risultati degni di nota da ascrivere al Carroccio: la riforma Calderoli sull’autonomia regionale è avviata, ma con i soliti tempi biblici; il Ponte sullo Stretto è allo stadio di promessa, sia pur condita da studi di fattibilità per dargli una parvenza operativa; il disegno di legge sulla sicurezza è in cammino, e forse qualche effetto-annuncio lo strapperà prima delle urne europee, ma in zona cesarini; gli ultimi accordi in Europa sull’immigrazione hanno confermato per l’ennesima volta il trattato di Dublino che penalizza i Paesi di primo approdo come l’Italia, e sbraitare contro l’Ue non sarà sufficiente come alibi, per un governo che più a destra di così si muore. A Salvini rimangono le cartucce, buone per la propaganda d’occasione, di esternazioni dal sapore di vago controcanto sulla Russia, o le sempreverdi sparate a salve sulla droga. Troppo poco, per un elettorato che vorrebbe più fatti concreti, quelli di sempre: meno tasse, meno burocrazia, meno Stato. Un elettorato pragmatico, magari un po’ stufo dello stile salviniano, inutilmente macho, che è logico si faccia attrarre dalla calamita del partito più forte, Fratelli d’Italia, e persino da quello più debole, Forza Italia.
Salvini non è però tipo da mollare la cadrega. L’apparato del Carroccio, soprattutto a colpi di commissariamenti, è stato plasmato in questi anni a sua immagine e somiglianza, secondo la tradizione leninista in vigore fin dai tempi di Bossi. Una vera e propria dissidenza interna, perciò, è da escludere. Se la tornata europea andrà troppo male, sarà costretto quindi a inventarsi un nuovo corso, che non potrà che andare in una direzione: alzare il livello di conflitto nella maggioranza. In altre parole, tentare di riprendersi i voti “rubati” da meloniani e forzisti. Un gioco pericoloso per la tenuta del governo, che a quel punto correrebbe il pericolo di cadere anzitempo, imboccando il tunnel delle elezioni politiche anticipate. Salvini, insomma, dovrà fare quel che hanno sempre fatto i piccoli partiti in ricorsa qualora a rischio sopravvivenza: rompere, tornando ad avere le mani totalmente libere. Un Papeete II la vendetta. Il che, a sua volta, implicherebbe differenziarsi di più. Molto di più. Nell’unico senso possibile, non a caso già adottato: più a destra possibile (di qui la candidatura del generale Roberto Vannacci). Con Fratelli d’Italia giocoforza istituzionalizzata, e una Forza Italia rassicurante ovvero senza Berlusconi, lo spazio disponibile resta proprio quello più congeniale a Salvini: la protesta, la Bestia 2.0, l’estremismo verbale, la caciara, la deriva a destra. Tutto, pur di non ammettere che la decadenza leghista è colpa sua, e solo sua. De-salvinizzare la Lega, infatti, è impossibile, se nessuno si fa avanti per sottrargli lo scettro del comando. E se qualcuno pensa a Zaia, può star fresco. Alla fine della fiera, se manca la classe dirigente alternativa (com’è mancata in Sardegna, dove il governatore Christian Solinas, l’uomo che Salvini avrebbe voluto ricandidare, non aveva certo brillato), le rivoluzioni non si possono fare.