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Dario Di Vico, economista del Corriere:
“Ci siamo illusi che il commercio
portasse pace. Ora come conciliamo
l’elettrico con la riapertura delle centrali a carbone?”

  • di Lorenzo Longhi Lorenzo Longhi

11 marzo 2022

Dario Di Vico, economista del Corriere: “Ci siamo illusi che il commercio portasse pace. Ora come conciliamo l’elettrico con la riapertura delle centrali a carbone?”
La guerra tra Russia e Ucraina ci sta insegnando che il nostro sistema economico ha fallito. Ne è convinto Dario Di Vico, economista del Corsera, che in questa intervista ripercorre i momenti chiave in cui l’Occidente si è illuso che il commercio avrebbe pacificato il mondo. Intanto le famiglie devono fare i conti con le bollette decuplicate e gli imprenditori con il prezzo della benzina alle stelle. In questo scenario ci ricorda due momenti spartiacque: quando dopo la crisi in Crimea del 2014 l’Italia diventò ancora più dipendente dal gas russo (“ma eravamo matti?”) e l’allargamento del Wto alla Cina. E adesso, si chiede, come concilieremo le corsa ai veicoli elettrici con la riapertura delle centrali a carbone non esclusa da Draghi?

di Lorenzo Longhi Lorenzo Longhi

Ci eravamo illusi. L’interconnessione, gli scambi, l’ipercapitalismo che tutto domina e tutto smussa, differenze politiche comprese. Questo è il momento del conto: ce lo porge il conflitto russo-ucraino, ed è salatissimo. “Siamo stati irenici, abbiamo creduto che dove l’economia avanzava sarebbe arretrata la forza. Invece no, e quanto sta accadendo ci costringerà a ripensare diversi equilibri”: è Dario Di Vico, inviato ed esperto economico del Corriere della Sera, a consentirci di interpretare gli ultimi decenni alla luce di ciò di cui non ci eravamo accorti, di un mondo i cui equilibri, evidentemente, erano tutto fuorché definiti. Ci eravamo illusi, appunto, e si era illuso anche chi ha preso decisioni che, viste oggi, lasciano più che perplessi. Ancor di più a fronte del conflitto Russia-Ucraina. 

Di Vico, come possiamo leggere, sotto l’aspetto economico, ciò che stiamo vivendo?

Quello che sta accadendo va letto attraverso due diverse dimensioni temporali: la prima riguarda l’evoluzione dell’emergenza che stiamo attraversando, la seconda ci deve necessariamente portare a fare considerazioni di fondo su ciò che ci presenta questa fase di discontinuità.

Prima prospettiva: quella a breve termine.

Qui rientra la gestione delle ricadute della crisi su tutta una serie di cose: dal Pil ai costi che stanno attanagliando famiglie e imprese le cui bollette sono in certi casi decuplicate, sino al mangime per gli animali che non arriva più così e così via, perché le conseguenze sono estremamente varie. Qui si può solo andare per approssimazioni successive, perché la situazione è in continua evoluzione e si tratta di registrare quello che accade.

E sul medio-lungo periodo?

Il discorso riguarda le conseguenze geopolitiche che emergono da questa crisi. Noi occidentali abbiamo sempre pensato che lo sviluppo del commercio avrebbe favorito relazioni internazionali più distese. In fondo era questa l’idea di fondo dietro la globalizzazione: ci siamo abituati a pensare che, ferme restando le differenze politiche, l’ottimizzazione dell’economia avrebbe dato frutti e ricchezza e sarebbe riuscita a contemperare le differenze fra i vari regimi grazie alla collaborazione fra le democrazie e gli autoritarismi.

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Dario Di Vico del Corriere della sera

Qual è stato il momento chiave di questa idea?

L’allargamento del Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio) alla Cina, una ventina di anni fa, è un episodio chiave di questa visione, che vale anche per il rapporto che ci lega alla Russia per la fornitura di energia. Nel caso dell’Italia, la dipendenza energetica è notevolmente aumentata dopo la crisi in Crimea, nel 2014, arrivando a superare il 43%. Col senno di poi uno dice: ma eravamo matti?

Appunto: eravamo matti?

La verità è che abbiamo considerato come secondarie le eventuali conseguenze, pensando che il commercio favorisse la distensione. Ecco: purtroppo non è così e ciò implica che sarà necessario rimettere mano alle nostre decisioni in termini di politica economica.

Non è solo un problema italiano.

No, pensi alla Germania. Quando critichiamo i politici italiani li paragoniamo a figure mitologiche come Willy Brandt o Angela Merkel, ma entrambi col senno di poi hanno fatto un errore che ora la Germania sta tentando di correggere, ovvero avere attuato una Ostpolitik che ha portato il Paese a dipendere troppo dalla Russia sotto il profilo energetico, nella convinzione che il commercio portasse la pace. Ancora sino a poche settimane fa c’erano fior di economisti che sostenevano la necessità di autorizzare il gasdotto North Stream 2, che avrebbe stretto ulteriormente il cappio della dipendenza europea dalla Russia.

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Le forniture di gas dalla Russia all'Italia

Certe risorse, però, arrivano in gran parte da regimi autocratici. Oggi è la Russia, domani i Paesi del Golfo.

Serve un piano per riparare la globalizzazione laddove presenta delle contraddizioni come quelle che abbiamo riscontrato in questa emergenza. L’Italia, per ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, ora accede maggiormente ad Algeria e Qatar: non se ne esce se non attraverso una diversificazione del rischio.

Cosa significa?

Bisognerà arrivare ad avere un mix energetico attraverso la capacità nazionale e l’utilizzo di altre fonti, noi ad esempio utilizziamo anche il nucleare francese, per appunto diversificare il rischio, altrimenti pendoleremo sempre dal rivolgersi agli arabi o a Putin. Questa penso sia l’unica strada, poi andrebbero fatte riflessioni sulle rinnovabili, sul nucleare, sulla transizione ecologica. Far quadrare il cerchio non è semplice, a maggior ragione se si pensa alle contraddizioni che si trovano tra la scelta di andare verso i veicoli elettrici e l’idea della riapertura delle centrali a carbone non esclusa da Draghi. Ma dovremo tenere sempre presente l’idea, oggi chiara, che i commerci non assicurano la pace.

Le critiche alla globalizzazione non hanno mai centrato il punto, evidentemente.

Abbiamo sempre ragionato in termini principalmente sociali. Fino a poche settimane fa la globalizzazione era un problema perché pesava sulla competizione e sul diverso peso, per dire, di un operaio italiano rispetto a un operaio cinese. Nessuno ha ragionato su globalizzazione e politica militare.

Sullo sfondo c’è sempre la Cina e, oggi, va considerata sotto diversi punti di vista.

La globalizzazione degli ultimi decenni ha portato a dislocare in Cina tutta una serie di produzioni che venivano svolte dai Paesi occidentali. L’esempio recente relativo alle mascherine è stato clamoroso, ma se dalle mascherine passiamo ai chip è chiaro che il confronto con la Cina diventa molto più complicato rispetto a quello con la Russia, anche perché la Cina ha una società civile dinamica, piena di talenti e in ascesa. In teoria è più lontana da noi, ma dal punto di vista delle intersezioni tra le relazioni internazionali e l’economia è una situazione potenzialmente più esplosiva, se si considerano anche gli interessi degli Stati Uniti nel triangolo Cina-Taiwan-Usa.

In questi giorni tutti parlano del possibile default russo.

Nessuno può dire di conoscere gli esiti della crisi, non possiamo fare gli apprendisti stregoni. Nessuno conosce le reali possibili conseguenze del default della Russia. D’ora in poi bisognerà cambiare approccio.

In che modo?

Si ragiona sempre nei termini di una rinuncia: a cosa siamo disposti a rinunciare per ottenere qualcosa? L’Occidente deve esplorare nuove vie: il commercio globale è in difficoltà, tante cose che avevamo dato per scontate non si sono rivelate tali. Il problema è rinunciare a 2 gradi nelle abitazioni? No, la situazione va affrontata dall’alto. Il capitale umano e tecnologico occidentale è straordinario, lo si utilizzi per cercare soluzioni da altre prospettive.

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