“Il bene, quando parte, va da solo”. Chi, nella sua vita. abbia mai portato aiuti a un campo profughi, in qualsiasi parte del mondo, questa frase se l’è sentita senz’altro dire da qualcuno. Non è retorica buonista, perché le guerre non si combattono con i sorrisi e l’esistenza dei profughi significa la presenza di un conflitto feroce, magari è spirito di conservazione di umanità. Mercoledì sera, nella diretta Instagram del direttore di MOW Moreno Pisto con Ismaele La Vardera, l’inviato delle Iene ha insistito, fra l’altro, su questo aspetto. Lunedì all’alba La Vardera è rientrato in Italia dopo avere organizzato un viaggio per portare aiuti per i profughi ucraini al confine tra Romania e Ucraina, una storia di solidarietà nata dai social, cresciuta spontaneamente e raccontata in un reportage andato in onda ieri sera nella trasmissione di Italia 1. “Tutto era nato come un viaggio per portare cibo e medicinali a bordo di un pullman e rientrare con alcuni profughi che sarebbero poi stati ospitati presso la Comunità di Santa Fede di Cavagnolo, in provincia di Torino. Quando ho lanciato l’iniziativa, che voleva essere qualcosa di simbolico, è partita una gara di solidarietà: diverse grandi aziende si sono unite, hanno contribuito con le donazioni e, dal pullman originario, siamo infine partiti con sei Tir carichi di medicinali, cibo, vestiario. Italtrans ci ha fornito tutto il supporto possibile, i mezzi, gli autisti e siamo partiti da Calcinate con il nostro convoglio. Dovevamo arrivare a Siret, alla frontiera della Romania, ma alla fine abbiamo avuto la possibilità di entrare in Ucraina e abbiamo scaricato tutto a Cernivtsi, a una sessantina di chilometri da Siret, scortati dai militari ucraini”.
In Ucraina, oltre frontiera, dove c’è la guerra. Sul posto, in un palazzetto dello sport che è diventato centro di smistamento per gli aiuti umanitari. Aiuti, non chiacchiere, laddove la guerra si respira: “Quella - ha spiegato La Vardera - è una zona relativamente tranquilla, data la vicinanza con il confine. La città non è stata colpita dalle bombe, ma la guerra si percepisce: la gente è pronta a ogni evenienza, ragazzi che hanno la mia età e potrebbero essere mie compagni di bevute il sabato sera imbracciano il kalashnikov, ovunque ci sono posti di blocco. Sono pronti a difendere il loro territorio, sanno che potrebbe capitare da un giorno all’altro». Persone, volti, immagini strazianti. Il viaggio di La Vardera è questo: “Vedere bambini piccoli con i peluche in mano, in fila al freddo in piena nevicata che aspettano in fila per uscire dal Paese, in quelle file di ore e ore al confine, è qualcosa che resta dentro e ti fa sentire impotente. Avrei voluto portarli tutti con me, ma avevamo un pullman da nove posti… Non ha senso, la gente ha bisogno di andarsene da lì. Davanti ai miei occhi vedevo padri che salutavano mogli e figli, bambini che piangevano perché il papà andava in guerra. No, non è un film”.
Fa male, destabilizza. Il convoglio di La Vardera ha portato al centro di smistamento 40 mila medicinali, 38 mila pannolini, 6 mila bottiglie d’acqua e tanto altro. “Ora servono cose concrete, ma anche segni di presenza. Leggevo la proposta di un Consiglio europeo in Ucraina, di portare i grandi della terra lì, penso al Papa per un segno di presenza. Quello che abbiamo fatto noi intanto è stato appunto grazie alla forza dei social. Io non mi sono mai occupato di conflitti internazionali, non sono un esperto, ma avevo i social: se li utilizzassimo bene potrebbero essere lo strumento per una guerra di pace. Come ho fatto io hanno fatto e stanno facendo tantissime persone lontane dal clamore mediatico. Noi che siamo più conosciuti facciamo rumore, ma dall’Italia in tanti stanno portando aiuti, in una catena di bene che non si può fermare. Ciò che posso suggerire è di non fare tutto di testa propria, ma di coinvolgere la Farnesina, è fondamentale”.