Mentre a Gaza infuria la battaglia e le forze israeliane (Idf) annunciano di aver preso il controllo del nord della Striscia, salgono a più di 10 mila i palestinesi morti dal 7 ottobre ad oggi, tra cui 4.104 bambini, 2.641 donne e 611 anziani e a cui vanno aggiunti oltre 25 mila feriti. Una guerra, quella di Israele contro Hamas, che rischia di prolungarsi a lungo, e che solleva numerosi interrogativi sul futuro della Striscia di Gaza una volta che Tel Aviv avrà raggiunto i suoi obiettivi militari e ancora di più dopo che Netanyahu ha dichiarato: "Gestiremo noi la sicurezza a Gaza", facendo presagire una occupazione permanente. Ne abbiamo parlato con Domenico Quirico, giornalista e storico inviato di guerra.
L’esercito israeliano è nel cuore della Striscia di Gaza, e le truppe israeliane hanno circondato Gaza City. Si prospetta una guerra lunga e sanguinosa, secondo lei?
Le guerre dipendono dagli scopi che i belligeranti si propongono e quali siano quelli di Israele è un po’ incerto. Al di là dell’affermazione di voler eliminare Hamas fino all’ultimo miliziano, è un po’ difficile stabilire quando questo si possa effettivamente realizzare. Non è una cosa semplice. La prospettiva più concreta di Israele è quella di procedere con uno svuotamento della parte settentrionale di Gaza, costringendo gli abitanti a ritirarsi verso il confine con l’Egitto, dove è più facile ricevere aiuti, e utilizzare quel territorio sgombro come una sorta di fascia di sicurezza. In questa maniera, per Hamas, diventa più difficile prendere alla sprovvista nuovamente Israele. Tutto questo bisogna vedere però se è realizzabile e quanto tempo ci vuole. A meno che non ci sia addirittura una volontà di sgomberare Gaza e costringere 2 milioni di palestinesi a spostarsi in Egitto. Che inizialmente era una delle ipotesi ventilate da Israele, ma con l’opposizione formale degli americani diventa molto difficile. Si prospetta dunque una guerra lunga che è nelle intenzioni di Hamas. Più il conflitto si prolunga, e più Hamas infatti dimostra che Israele è diventato veramente molto fragile. Le piazze arabe, dinanzi al numero delle vittime civili, possono costringere anche i governanti più accomodanti con l’occidente, ad assumere posizioni più radicali. Così il circuito della violenza che Hamas ha innescato aumenta e forse cresce anche di intensità.
C’è tensione tra il governo Netanyahu e il suo principale alleato, gli Usa, su quello che succederà a guerra finita. Al premier israeliano, che ha parlato di “controllo israeliano senza limiti di tempo su Gaza”, ha risposto la Casa Bianca spiegando che “la terra è palestinese e rimarrà tale”. Questa guerra rischia di complicare il rapporto tra Tel Aviv e Washington?
I rapporti tra Israele e Stati uniti non sono sempre stati idilliaci. Gli Usa non sono stati tra i promotori della nascita dello Stato d’Israele, anzi. Nel periodo in cui è nato Israele, nel 1948, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti avevano molto più interesse ad avere rapporti positivi con gli arabi che non con Israele, che tutto sommato consideravano un’eredità del colonialismo europeo. Nel 1956 gli americani hanno costretto Israele a fare marcia indietro sul Canale di Suez, e nel 1967 gli israeliani, per evitare di essere nuovamente bloccati dagli americani, hanno operato l’attacco preventivo contro la Siria e l’Egitto, senza comunicarlo a Washington. Ci sono state molte frizioni nel corso della storia, a seconda delle diverse amministrazioni americane. Che cosa ne verrà fuori da questa tragedia è un enorme, gigantesco e allarmante punto interrogativo. Non ci sono idee, non c’è alcuna prospettiva credibile. Anche questa vecchia formula del ‘due popoli, due stati’ è una bella frase ma non significa nulla. Oggi la situazione è radicalmente cambiata. L’Autorità Palestinese è una creatura moribonda, mai nessuno ha pensato che potesse diventare qualcosa di reale. Pensare di prendere Abu Mazen e restituirgli Gaza, con le armi israeliane, dopo che l’ha persa alle elezioni ed è un ormai un personaggio totalmente squalificato, un rottame della storia, privo di carisma, vuol dire che siamo arrivati al punto zero. Servono idee nuove, uomini nuovi, ma in giro si vedono centenari senescenti. Penso a Biden, Netanyahu, che ha segnato la storia di Israele da decenni, o Abu Mazen: è uno spettacolo di devastante e preoccupante miseria.
I ministri degli Esteri del G7 hanno condannato “senza equivoci” gli attacchi di Hamas e chiedono appunto la soluzione dei “due Stati” da lei menzionata.
Non hanno altre idee. Si sono ritrovati con una tragedia pazzesca, che li è piombata sulla testa senza che negli ultimi decenni si sia fatto nulla per cercare di circoscriverla, o di impedire che si verificasse. Hamas li ha mollato un gigantesco, sanguinoso, calcio nel sedere. E nella loro piccola cassaforte di idee idiote, l’unica cosa che hanno tirato fuori è una roba che era già morta. I piani di Israele, non sono più quelli di prima dopo quello che ha subito, con la fine del mito della sua invincibilità. Siamo sinceri, Hamas e anche una parte dei palestinesi, non vogliono Israele, ritengono sia un’usurpazione della loro storia. E una parte degli israeliani ritiene che l’unico sistema per guadagnarsi il diritto di sopravvivere in quella parte del mondo, sia quello di essere più forte degli altri. Questo è il problema. Se qualcuno riesce a trovare una soluzione in questa specie di garbuglio inestricabile, è un genio. Ma non se ne vedono in giro.
Biden ha collegato la guerra a Gaza con quella in Ucraina, spiegando che Hamas e Putin “vogliono cancellare le democrazie”. Esiste veramente un filo conduttore?
Il filo-conduttore è che il mondo è entrato in una fase di disordine assoluto, di cui gli americani sono in parte colpevoli e in parte vittime. È il disordine che nasce dall’indebolimento del loro controllo monocratico della geopolitica mondiale. A quel punto si può mettere tutto assieme: l’Ucraina, i golpe in Africa, Taiwan, l’Iran, tutto si lega, perché questo disordine è la conseguenza dell’indebolimento dell’ordine precedente. Il problema è trovare le regole di un nuovo ordine, che non può più essere quello precedente, cioè che gli Stati Uniti stabiliscono cosa va bene e cosa va male, perché c’è una parte del mondo, che non sono soltanto Putin o Hamas, che quest’ordine non lo vuole più e lo ritiene illegittimo. Che abbiano ragione o torto, questo è un altro discorso, ma è un dato di fatto. Io non so se Biden è un genio o un mediocre presidente, questo non mi interessa, quello che sta facendo però è la cosa peggiore di tutte, che è quella di legare questi due giganteschi problemi del mondo intero, l’Ucraina e Gaza, alla campagna politica presidenziale del prossimo anno. Questo è il limite delle politiche occidentali: non pensiamo a lungo termine, ma alle prossime elezioni. E questo è un pericolosissimo modo di agire.
In tutto questo scenario, l’Europa secondo lei sta giocando qualche ruolo o come dicono alcuni, è ancora una volta ai margini senza una politica estera chiara?
L’Europa è allineata all’idea più semplice, quella dei due stati e dei due popoli, e ha aperto il borsellino come fa sempre per allietare le sofferenze dei palestinesi. Con questo pensa di essersi salvata l’anima. Il prossimo anno ci saranno le elezioni europee, e molto probabilmente questa leadership sarà spazzata via. Non credo che ci sarà una riproposizione della signora Ursula von der Leyen a capo della commissione, è tutta gente che ha già le valigie in mano. Non mi sembrano siano nelle condizioni migliori per ricavare grande idee, quando non sono nemmeno d’accordo fra di loro, con Borrell che dice una cosa, e von der Leyen ne dice un’altra. C’è una cacofonia motivata dal fatto che sono persone che non hanno nulla in mano, né la forza, né dietro di sé un’unità di intenti, e ognuno stato fa il suo. La conseguenza di tutto questo è che l’Europa è un’enorme assente. Perché farsi i selfie con Abu Mazen non cambia di certo la politica mondiale.