La domenica mattina, ogni volta che posso, vado a Lucca, nella chiesa Santa Maria della Rosa, e assisto alla messa in latino. Sono sempre stato un laico. Sono sempre stato un profano, forse pagano. Un agnostico, qualsiasi cosa questo voglia dire. Ho sempre creduto di non credere in Dio. Eppure quando il mio amico Vasco mi ha raccontato del rito in latino, come si usava fino al 1968, prima del Concilio Vaticano II, la mia anima da giornalista non ha resistito. Così l'ho seguito una prima volta, poi una seconda, presto lo farò una terza. E ho scoperto che adesso, in teoria, potrei essere considerato un ribelle della nuova Chiesa progressista di Papa Francesco. Nella messa in latino il parroco dà le spalle ai fedeli e se ne sta a lato dell'altare, perché si rende onore solo a Cristo. Non c'è musica, non ci sono distrazioni. Qui regna la liturgia, la ripetizione di concetti altisonanti e misteriosi. A latino ho sempre avuto pessimi voti, non lo conosco. Quindi per me quell'ora di messa è un’ora di raccoglimento. È meditazione. Ne apprezzo la rigidità, lavora sulla ricerca della mia integrità. Ho ripreso pure a ricevere l'ostia: al momento della comunione vado sul banchetto che delimita l'altare, mi inginocchio e aspetto che il parroco me la poggi sulla lingua (nel rito latino non può dartela sulla mano), poi torno indietro e dedico qualche minuto a una profonda introspezione.
I fedeli appartengono all'Istituto Cristo Re, un ordine piuttosto inviso alla dottrina innovativa di Bergoglio. Ho capito che per ottenere il permesso di celebrare il rito antico hanno dovuto aspettare dieci anni. Qualcuno mi ha detto, con un sorriso irrisorio: “È più facile che una chiesa diventi una moschea, ormai. Noi siamo il vero nemico”. Ecco, entrare dentro questa ritualità mi ha fatto rendere conto di quanto la sacralità di una religione sia secolarizzata, qualcosa che non rispetti la temporalità umana, disposta a sacrificare l'immanenza con l'imminenza, due concetti altissimi, che nessuno - tranne forse Camillo Langone - cita più. Invece la Chiesa che si apre ai trans e ai gay sembra concedersi a un adeguamento di ciò che non è divino ma umano fin troppo umano: il cambiare degli usi e costumi, trattati con una logica del marketing.
Sia chiaro, io non sono contro il battesimo dei trans e il fatto che un gay possa fare il padrino. Ma approfondendo la questione sono stati i distinguo a colpirmi. Perché nella nuova dottrina di Papa Francesco i trans possono essere battezzati a patto che conducano una vita sessuale decorosa, e i gay possono fare da testimoni e da padrini a patto che non convivano con altri dello stesso sesso. Ma cos'è? Capite l'ipocrisia? La Chiesa ancora una volta apre ma in realtà finge di non vedere, si contraddice, cerca di riparare alla crisi di vocazioni creando ancora più confusione. Piuttosto che fare perno su quei valori (discutibili o meno) che l'hanno fondata. E una Chiesa confusa, una Chiesa che fa diventare la messa delle prediche noiose accompagnate da schitarrate che mio figlio definirebbe cringe ha già perso. È già finita. La fede deve essere indagata. Se vuole solo compiacere sminuisce se stessa. La religione se si trasforma si sfalda. Abdica a quanto di imponente e attraente detiene: il mistero, la forza delle sue parole.
E per quanto non possa ritenermi un credente non penso che questo sia un bene. Per la nostra civiltà, per la nostra cultura. E quindi per il nostro futuro. Di questo dovremmo dibattere. Non di un concetto come quello dell'inclusione trattato, appunto, seguendo la logica dell'apprezzamento. Perché stiamo parlando della nostra Storia. Non di un post sui social.