La fede permette che i simboli estendano la loro portata con rara coerenza. Alla fine del libro, nel capitolo conclusivo, Janine di Giovanni fa riferimento, parlando dei suoi giorni di ritiro per il lockdown ad aprile del 2020, al cosiddetto “inverno della fame” del 1944 in Olanda, «quando molte persone, fra cui Audrey Hepburn, sopravvissero grazie a bulbi di tulipano e barbabietole da zucchero». Il suo nuovo libro, La fede scomparsa. Il tramonto del Cristianesimo nella terra dei profeti (La Nave di Teseo, 2023), è la fotografia di un lungo inverno della fede non solo in Medio Oriente, i luoghi di cui la giornalista di Vanity Fair si è occupata, ma anche in Occidente. Un lungo inverno che in Iraq, in Siria, in Egitto e sulla striscia di Gaza è stato aggravato dalle guerre, dalle carestie e dalla violenza dell’uomo. Un inverno in cui i cristiani sopravvivono con bulbi di preghiere e cene in famiglia, sotto le bombe. Ha ragione Salman Rushdie a sostenere che questo libro sia scritto «con grande passione e grazia». In Iraq una donna anziana è china di fronte a una pianta. Di Giovanni chiede cosa stia facendo e lo racconta così: «“Sto pregando,” rispose, indicando un ramo carico di papaie mature, pronte a cadere, “Dio è lì”, disse. “È ancora in quell’albero”». C’è questo doppio che viene mantenuto vivo nella preghiera: la sicurezza ma anche il coraggio. È quello che dimostra Janine di Giovanni nel libro, con la sua storia di reporter di guerra, quando parla di quelle fughe in chiesa, dove la gente pregava in un’altra lingua, in chiese meno affascinanti delle nostre, ma piene. In posti dove la popolazione cristiana oggi è diminuita di oltre tre quarti rispetto a dieci, quindici, venti anni fa.
È quasi del tutto inutile tentare di tirar fuori i dati da un flusso fatto di lacrime e dolore (la morte degli amici, la paura alla dogana, i natali fatti cercando gli ingredienti per un piatto tipico e, inevitabilmente, povero). Di sangue, di lingue rubate alle preghiere e usate per dare ordini. E della sua, di lingua. Usata per addomesticare quanto visto, in articoli, reportage. E in questo libro. Un libro che scava nella sua stessa biografia e anche nella sua professione. Fino a tornare all’infanzia: «Una volta, quand'ero bambina, mio padre osservò che non c'erano atei nelle trincee. Io non ho capito cosa volesse dire finché non ho iniziato a vivere nel vortice delle guerre e la mia vita si è riempita di pericoli. Adesso prego quando vado in silenzio dalla mia camera al mondo esterno. Prego per essere protetta dal pericolo, per sentirmi sicura». La scomparsa della fede nella «terra dei profeti» è prima di tutto la dimostrazione di come oggi, a dispetto della vulgata, in molti Paesi sia la religione a essere aggredita, dalla politica, da alcune frange fondamentaliste, ma anche dagli atei. Un ateismo che fa da controcanto a un forte dogmatismo ideologico. Di questo, il libro di di Giovanni, non parla. Non si sporca con l’impasto della crisi delle coscienze e la diffusione del fanatismo di segno inverso a quello che un tempo si voleva combattere. Un fanatismo giocato sull’esclusione e l’impossibilità del dialogo, ma soprattutto sull'estromissione della sfera religiosa dal nucleo delle questioni su cui i potenti basano le proprie scelte. Ma se ne può parlare a partire dal suo volume.
Nonostante con Kirill Putin abbia tentato di trovare legittimazione medievale per la sua impresa, nonostante chi urla il nome di Dio per poi torturare e uccidere donne a cui viene impedito di andare a scuola, nonostante chi marcia sulla spianata delle moschee, la fede che si affievolisce all’esterno sembra rinforzarsi nell'intimità delle persone. Così scrive Padre Mario, missionario brasiliano a Gaza, una volta tornato nel suo Paese natale: «Io lavoro per Dio. Faccio quello che mi chiede. Mi soffermo a chiedermi perché faccia questo, ma spesso non lo capisco». E ancora: «Sto dando la vita nel tentativo di aiutare i cristiani di qui. Ma la verità è che non dipende da me». Eppure si continua su questa strada, impotenti quanto inadatti a sostenere il peso di una civiltà che si sgretola. Lo fanno anche i giornalisti, i più coraggiosi.