Che la scienza abbia a che fare non solo con la Storia, ma con le storie, è ormai chiaro; almeno agli occhi di chi abbia letto con interesse le nuove frontiere della storia e della sociologia della scienza di ambito STS (potrete trovare in italiano due interessanti introduzioni, Che cos’è la storia della scienza di Paola Govoni e Sociologia della scienza e della tecnologia di Giampietro Gobo e Valentina Marcheselli, entrambi pubblicati da Carocci). Ma la ripubblicazione con nuova traduzione del saggio di Giorgio de Santillana, Le origini del pensiero scientifico: da Anassimandro a Proclo, da parte di Adelphi dopo quarant’anni dalla prima uscita in Italia, ci permette di ricostruire gli inizi della scienza, che ormai sempre più studiosi fanno risalire non alla cosiddetta Rivoluzione scientifica – termine quanto mai improprio e piuttosto ideologico che rientra a buon diritto nel whiggism di cui parla un altro storico della scienza, Hasok Chang, cioè la “storia dei vincitori” – ma alla scienza ellenica, alla Grecia, da Anassimandro a Eudosso, che per primo, pur senza venir menzionato nel Timeo di Platone, tentò la sistematizzazione della conoscenza geometrica del tempo. Ma non solo. Il libro di de Santillana ci permette di guardare alle condizioni di salute non solo della scienza attuale (quella scienza nuove che egli definiva della “Necessità delle cose”; il materialismo) ma dell’impresa intellettuale in senso lato. Questo perché – ed è chiaro fin dalle prime pagine del volume dedicate al mito e alle intuizioni sulla raffinata cultura delle civiltà preistoriche – l’approccio di de Santillana è sempre stato quello di un ricercatore e un curioso espansivo, in grado di collaborare e di ampliare i confini dello studio fino a comprendere sempre nuovi ambiti, mito compreso. È chiaro dunque in che modo, per contrasto, l’opera di de Santillana dica molto dei nostri tempi, in cui gli scienziati fanno solo gli scienziati e i difensori della scienza agiscono a scapito di un vero dialogo tra campi del sapere (tanto che in più di un’occasione medici influencer, economisti imbruttiti e altri specialisti strappano ai propri interlocutori la libertà e il diritto di esprimere la loro opinione perché non sono esperti nello stesso settore). De Santillana, di formazione fisico, è stato indubbiamente tra i più importanti storici della scienza del Novecento a livello internazionale. Docente al MIT ma laureato a Roma, fu l’assistente e il compagno di viaggio di Federigo Enriques, una delle menti italiane più grandi del secolo scorso, messo da parte per le sue idee antigentiliane in anni in cui la distinzione tra le cosiddette “due culture” risultava invece fondamentale (anche per fini ideologici; siamo negli anni Venti). Il nome di de Santillana, nel presente dei fact-checking e dei CICAP di tutto il mondo, è stato più volte associato a quei movimenti di indagine e a quei ricercatori giudicati complottisti o cospirazionisti, anche per il fatto che uno dei suoi lavori, quello con Herta von Dechend, Il Mulino di Amleto (Adelphi 2003) divenne popolare negli anni passati grazie alla menzione (d’onore, è il caso di dirlo) nel volume Impronte degli dei: alla ricerca dell’inizio e della fine, di Graham Hancock, giornalista ed esperto di preistoria (in italiana pubblicato da Corbaccio) tornato a far parlare di sé con una serie Netflix, L’Apocalisse perduta, e fortemente criticata da molti “addetti ai lavori”. Chiaramente, si tratta di un limite dei detrattori e non di de Santillana (così come, il più delle volte, si tratti di un limite dei critici di Hancock che non di Hancock stesso, le cui tesi meriterebbero, eventualmente, confutazioni e discussioni ben più analitiche del solito “Sei un ciarlatano”).
Chi leggerà Le origini del pensiero scientifico nella speranza di trovare la solita marmellata divulgativa buona per la rete pubblica e gli inviti da Corrado Augias, ovviamente non potrà che rimanere deluso. De Santillana forza le maglie interpretative della storia della scienza accademica, valutando positivamente il complesso di conoscenze protostoriche (la mitologia) e classiche senza imbastardire la conoscenza cronologicamente antecedente a quella moderna che noi consideriamo nostra. Ciò che venne prima di Galileo e Newton non è una storiella buona per la filosofia, la teologia o la letteratura, ma è l’impostazione rigorosa di un modo di ragionare arrivato fino a oggi e che forse proprio a partire dal Novecento è entrato in crisi. La grande lezione di de Santillana, ne Il Mulino di Amleto e ne Le origini del pensiero scientifico, al di là di qualsiasi valutazione specifica sulle sue tesi o sulle sue ricostruzioni (sono pur sempre passati cinquant’anni e, inoltre, la mola dei suoi lavori dovrebbe renderci tolleranti nei confronti di eventuali inciampi), è quella di diffidare dei cosiddetti “cautious contemporaries” (sono le sue parole in Reflections on Men and Ideas), quei ricercatori vigliacchi, stantii, che nulla concedono alle nuove idee e all’entusiasmo della ricerca. Oggi più che in altre epoche l’opposizione arriva non solo dall’Accademia, intrisa di settarismi disciplinari arbitrari, ma da ogni settore della comunicazione e dell’opinione, dal giornalismo dei portabandiera che vanno in TV a criticare chiunque non abbia un’idea lontanamente assimilabile alla loro (loro si fa per dire), fino alla politica delle grandi trasformazioni, che vorrebbe far curvare il futuro a favore di qualche idea goffa e scarabocchiata – una società scientificamente informata, una società ecologica, una società razionale, ecc. – che nulla ha a che vedere con la scienza o la razionalità. Nel tempo dell’isteria della ragione, autori come Giorgio de Santillana sono un’alternativa non irrazionale, ma pienamente razionale, in cui l’intelletto ricapitola i vari indirizzi di ricerca in un unico grande viaggio planetario, fatto non solo guardando le mappe, ma tornando a guardare le stelle.