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Dove sono finiti i Maneskin? Il grande gioco dell’ambiguità (e della comunicazione) che tiene i fan con il fiato sospeso. Damiano, Victoria, Thomas e Ethan, ma quanto può durare? L'abbiamo analizzato...

  • di Francesca Caon Francesca Caon

9 aprile 2025

Dove sono finiti i Maneskin? Il grande gioco dell’ambiguità (e della comunicazione) che tiene i fan con il fiato sospeso. Damiano, Victoria, Thomas e Ethan, ma quanto può durare? L'abbiamo analizzato...
Cosa sta succedendo ai Måneskin? Damiano parla di un “Erasmus”, Victoria balla con Anitta, Ethan fa colonne sonore e Thomas si defila. Nessun altro dice niente, ma tutti stanno già altrove. Ma il marketing del mistero funziona solo finché non diventa silenzio assordante...

di Francesca Caon Francesca Caon

"Siamo partiti per un Erasmus". Così Damiano David David, ospite da Fabio Fazio a Che Tempo Che Fa, aveva liquidato con una battuta la domanda più inevitabile: “State ancora insieme o no?”. Una frase detta con leggerezza, con quel mezzo sorriso ironico che il frontman dei Måneskin maneggia con mestiere, ma che — se ascoltata bene — suona quasi come un manifesto generazionale. Perché dentro quella risposta vaga, apparentemente giocosa, si nasconde tutta la complessità di una band che ha deciso di non spiegarsi, di non definire, di non rassicurare. Oggi, i quattro membri stanno infatti esplorando percorsi individuali con un’intensità che non può più essere considerata un semplice divertissement. Damiano ha dato il via alla sua carriera da solista con Silverlines, un pezzo lontano anni luce dall’estetica glam-rock che li ha resi celebri. Una canzone personale, malinconica, vulnerabile. Il segnale di un’identità artistica autonoma che vuole respirare da sola. Victoria De Angelis ha preso la strada della techno, con il singolo Get up bitch! Shake ya ass in collaborazione con Anitta, in cui emerge una nuova versione di sé: aggressiva, provocatoria, iper-femminile. Ethan Torchio, il batterista più misterioso del gruppo, ha firmato la colonna sonora di un docufilm sulla salute mentale. Anche Thomas Raggi ha cominciato a suonare in contesti indipendenti.

I Måneskin sono ancora una band?
I Måneskin sono ancora una band?

Tutti, insomma, stanno altrove. Ma nessuno dice chiaramente dove. La band non comunica una separazione, ma nemmeno una mancata coesione. Comunica vaghezza. Comunica assenza. Comunica un non-detto. Ma è davvero sostenibile questa scelta? O si tratta solo di un modo elegante per sfuggire a una responsabilità comunicativa? Nel mondo delle Pr, esiste una regola non scritta: se non comunichi tu, qualcun altro lo farà al posto tuo. Eppure i Måneskin sembrano infrangerla deliberatamente. Non rilasciano dichiarazioni ufficiali, non chiariscono lo status del gruppo, non condividono nemmeno una narrazione coordinata. Ognuno per sé. Ma tutti sotto la stessa, gigantesca lente d’ingrandimento. Il pubblico, anziché sentirsi tradito, si trasforma in detective. Analizza, interpreta, completa i vuoti. E continua a parlare di loro — anche quando loro tacciono. Il paragone con altri brand è inevitabile. I Beatles, nel 1970, annunciarono ufficialmente lo scioglimento. Da lì in poi, ciascun membro firmò i propri progetti da solista con chiarezza e orgoglio, sapendo che il mito collettivo sarebbe rimasto comunque intatto. I One Direction, invece, lasciarono tutto in sospeso, parlando di “pausa”, senza mai dare un addio definitivo. Il risultato? Una fandom in attesa per anni, alimentata più dalla nostalgia che da reali prospettive.

I Måneskin perché non comunicano con chiarezza?
I Måneskin perché non comunicano con chiarezza?

I Måneskin sembrano fondere questi modelli: non si sciolgono, non si giurano fedeltà eterna. Procedono per libere deviazioni. Ma senza mai dirci se e quando torneranno a convergere. Una danza tra l’individualismo e il mito collettivo. Dal punto di vista reputazionale, questa ambiguità è un rischio calcolato. Quando un brand collettivo si frantuma in quattro brand personali, il pubblico potrebbe smarrire il senso d’appartenenza. Chi sono oggi i Måneskin? Una band? Un’idea? Un ricordo? Ma la domanda più scomoda è un’altra: è giusto trattare il proprio pubblico come un’entità che può “non sapere”? C’è una linea sottile tra il creare mistero e l’eludere la responsabilità comunicativa. Tra il restare affascinanti e l’apparire sfuggenti. In questo caso, il confine sembra sempre più labile. Se la comunicazione è relazione, allora questo silenzio rischia di diventare una forma di distanza. I fan non sono clienti, ma nemmeno spettatori passivi. Meritano rispetto, ascolto, verità. Anche quando fa comodo non darla. Forse un “Erasmus” evocato da Damiano è davvero una metafora perfetta: un viaggio personale all’interno di un patto collettivo che resta, anche se in silenzio. Ma se quel silenzio non si scioglie mai, se la vaghezza diventa cronica, allora l’incanto rischia di rompersi. Il marketing del mistero è potente. Ma senza un punto fermo, anche il mito più luminoso può diventare evanescente.

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