Mario Draghi ha rassegnato le proprie dimissioni da presidente del Consiglio nelle mani del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che le ha respinte, invitandolo a verificare la situazione in Parlamento. Nel giovedì più intenso e complicato del terzo governo della XVIII legislatura è insomma accaduto di tutto, in un susseguirsi di situazioni che renderanno questa crisi, a rileggerla tra qualche anno, una delle più paradossali della più recente storia repubblicana.
Una crisi politica, non parlamentare: il premier aveva infatti anticipato le sue dimissioni, quelle poi respinte, con un comunicato nel tardo pomeriggio, dopo avere incassato la fiducia posta in Senato sul decreto Aiuti: 172 sì su 212 presenti, con il Movimento 5 Stelle che, compatto, non aveva partecipato al voto tanto alla prima quanto alla seconda chiama. Un’astensione inutile sotto il profilo della fiducia parlamentare ma evidentemente decisiva dal punto di vista della maggioranza politica che sosteneva il governo. “Le votazioni di oggi in Parlamento – era il testo del comunicato con cui il premier anticipava la mossa di salire al Colle per lasciare – sono un fatto molto significativo dal punto di vista politico. La maggioranza di unità nazionale che ha sostenuto questo governo dalla sua creazione non c’è più. È venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo. In questi giorni da parte mia c’è stato il massimo impegno per proseguire nel cammino comune, anche cercando di venire incontro alle esigenze che mi sono state avanzate dalle forze politiche. Come è evidente dal dibattito e dal voto di oggi in Parlamento questo sforzo non è stato sufficiente”.
Sarà anche venuta meno quella maggioranza, ma il Quirinale, poco dopo le 20, ha rimandato tutto a mercoledì quando Draghi, a quel punto formalmente ancora presidente del Consiglio, avendo comunque incassato la fiducia, terrà un discorso alle camere. Testuale: “Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricevuto questa sera al palazzo del Quirinale il presidente del Consiglio dei Ministri, prof. Mario Draghi, il quale ha rassegnato le dimissioni del governo da lui presieduto. Il presidente della Repubblica non ha accolto le dimissioni e ha invitato il presidente del Consiglio a presentarsi al Parlamento per rendere comunicazioni, affinché si effettui, nella sede propria, una valutazione della situazione che si è determinata a seguito degli esiti della seduta svoltasi oggi presso il Senato della Repubblica”. Nel corso della giornata erano stati diversi i colloqui tra il premier e il presidente della Repubblica e, stando alle ricostruzioni della serata, questo aspetto lascerebbe supporre che il respingimento delle dimissioni di Draghi fosse di fatto scontato, sebbene ai media sia apparso del tutto inatteso.
Anche in virtù degli impegni internazionali che vedranno impegnato il premier in Algeria in un vertice intergovernativo, l’accoglimento delle dimissioni potrebbe anche essere solo rimandato, nel contesto di una crisi di governo piuttosto rapida, appunto politica, con la variegata maggioranza di unità nazionale arenatasi più che per i dubbi su alcune misure del decreto Aiuti – un pretesto, non il casus belli – per le divisioni interne del Movimento 5 Stelle, unica formazione che, dall’inizio della legislatura, ha preso parte a tutti i governi (Conte I, Conte II, Draghi) a prescindere dall’orientamento politico, anche opposto. Proprio la figura dell’ex premier, presidente del Movimento, è centrale nella crisi attuale, e questi giorni saranno verosimilmente fondamentali per capire quanto il fronte dei 5 Stelle, quelli rimasti nel partito almeno, sia in realtà compatto. Del resto, il paradosso sublime del pomeriggio a Palazzo Madama ha voluto che fosse proprio il ministro per i rapporti col Parlamento, il 5 Stelle Federico d’Incà, a porre la questione di fiducia a nome del governo in una seduta in cui il suo partito la fiducia non l’avrebbe votata e in cui, peraltro, un altro ministro grillino, Patuanelli risultava salvificamente in missione. Basterebbe questo per verificare l’ambiguità di una crisi nella quale, al momento, gattopardescamente tutto è cambiato senza senza cambiare niente.
Il resto è mancia, nel senso che la giornata aveva vissuto le tappe più classiche delle crisi della Prima Repubblica (fatta eccezione per un imbarazzante post del compagno della ministra Dadone, ma solo perché i social allora non c’erano): le dichiarazioni dei duri e quelle dei puri, i tentativi di mediazione dei governisti, i suggerimenti moderati di chi sta in maggioranza e al governo vuole rimanerci, la reazione dei mercati, l’epifania giornalistica del più classico dei cliché di una crisi, ovvero l’ipotesi Amato, l’invito alle elezioni da parte di chi oggi sta all’opposizione e vola nei sondaggi, i timori di coloro – e saranno parecchi – che già sono certi di non vedersi riconfermare al prossimo giro, un po’ a causa dei cali di consenso dei rispettivi partiti, un po’ perché i parlamentari non saranno più 945, ma 600. Di qui a mercoledì parleranno tutti e bisognerà capire se e come le posizioni odierne saranno cambiate. Quelle di Draghi e Mattarella, soprattutto.