L’8 e 9 giugno speriamo faccia bello, così potremo andarcene al mare. Perché le elezioni europee fissate quel sabato e quella domenica non sono “europee”. A ben guardare, non sono neanche elezioni, sempre che con questa parola si possa ancora intendere una scelta dei cittadini vincolante sugli organi decisionali di uno Stato. L’Unione Europea non è uno Stato: è un tavolo negoziale, regolato da accordi firmati da un consesso di nazioni entro il quale ci sono nazioni "più uguali" di altre. Tradotto: quando prendono forma le famose politiche europee, a contare sono i rapporti di forza fra le cancellerie, i pesi delle singole potenze nazionali. La sovranità è stata trasferita a un ente mediano (l’Ue), per favorire le strategie geopolitiche degli Stati più influenti.
La politica finanziaria, perno di tutto, è pre-determinata a Bruxelles via Francoforte
È sempre stato così, dai primordi negli anni ’50 fino ai trattati di Maastricht (1992), Lisbona (2007) e al Fiscal Compact (obbligo di pareggio di bilancio, 2012), quando l’impianto ideologico “europeista” fu pantografato sulla dottrina, molto tedesca, dell’ordoliberismo, una variante del neo-liberalismo che tanti lutti addusse ai lavoratori europei. Uno su tutti: aver sottratto ai governi il diritto-dovere di finanziare la spesa pubblica, e il relativo deficit, tramite una propria banca centrale. Risultato: la politica finanziaria, perno di tutto, è pre-determinata a Bruxelles via Francoforte, per il tramite di una Banca Centrale Europea che gestisce la moneta unica su parametri di astratto ossequio al rigido dogma anti-inflazione. Rigido al punto che Mario Draghi, che della Bce è stato il presidente, di recente ha ammesso candidamente che si erano sbagliati, durante la crisi del 2010-11, a reagire al solito modo, cioè “minando il modello sociale”.
Il reale potere dell'europarlamento? Quasi nullo
Presentare la cadenza quinquennale per Strasburgo come l’equivalente di un normale scontro elettorale è, né più né meno, un’impostura. La divisione fra destra e sinistra incide molto relativamente sulle dinamiche interne all’Ue. Tutto è regolamentato perché siano i governi (più forti) ad avere l’ultima parola. Basti pensare al reale potere che ha l’europarlamento: quasi nullo. Non ha iniziativa legislativa, che è in mano alla Commissione. Può al massimo farle gentile richiesta di prendere in esame delle proposte. Ma a governare è il Consiglio Europeo che la nomina, e che nient’altro è che la sede in cui si riuniscono, arieccoli, i governi nazionali. È il Consiglio a condizionare il bilancio continentale, mentre i parlamentari possono discutere ed emendare, certo. Ma i giochi non si fanno sui loro banchi. Possono, questo sì, sfiduciare la Commissione. Ma è il massimo loro concesso (l’unica volta fu nel 1999, quando la corruzione travolse l’allora Commissione Santer).
Le elezioni che si svolgeranno in tutti gli Stati membri, se fossero davvero europee, dovrebbero prevedere, poniamo, che un lepenista francese possa votare l’italiano Roberto Vannacci. O che io italiano possa votare un socialista spagnolo. E così via. Ma la verità è che il rito di legittimazione dell’ircocervo di Bruxelles - né Stato federale, né confederazione di Stati interamente sovrani – è di fatto un’infornata di poltrone per seconde e terze file della classe politica di ciascun Paese. In pratica, un’elezione nazionale in più, per sistemare con lauto stipendio personaggi incomodi, scartine, pensionandi, pedine da parcheggiare lontano da Roma. Di democratico, nella sostanza, non hanno nulla. Di oligarchico, autoreferenziale, castale, tutto.