La tessera del Partito democratico del 2024 mostra gli occhi di Enrico Berlinguer, il suo sorriso, il suo sguardo. La nostalgia dei “bei tempi” della pienezza, suggerisce il sottotesto silenzioso. Una scelta sentimentale, molto “romance”. Avvenuta a quanto pare senza spareggio con altre possibili “icone”. Amaramente escluso ogni altro volto non meno narrativamente significativo in nome del pensiero e della suggestione magici: Woody Allen, per esempio. Non sembri una battuta: il circolo giovanile dello stesso partito nella romana via La Spezia, quartiere San Giovanni, dove Diego “Zoro” Bianchi nel 2014 ambienta il suo film “Arance & martello”, è dedicato proprio al protagonista di “Zelig”. Qualcuno, già democristiano, ha ritenuto riduttiva, se non sconveniente, la scelta di Elly Schlein, giunta dopo una visita alla mostra dedicata proprio a Berlinguer nei locali dell’ex mattatoio di Testaccio, stanze di memoria pasoliniana e del più drammatico film mai interpretato da Totò, “Dov’è la libertà…?” di Roberto Rossellini, segnalando, così i dubbiosi, che il Pd “non dovrà essere la prosecuzione del Pci”.
Il mite Pierluigi Castagnetti, precisa ancora: “Non metto in dubbio la forza del pensiero e il profilo di Berlinguer. Siamo altra cosa e non possiamo accettarlo. Se Elly Schlein vuole un partito che sia una versione aggiornata del Pci tanti saluti. Noi non ci siamo. È una scelta ma si abbia il coraggio di dirlo”. Infine: “Mi auguro che nel 2025 sulla tessera del Pd ci siano altri volti”. Magari “Don Sturzo o anche De Gasperi".
Gli occhi di Berlinguer, va detto, lì sulla tessera sono accompagnati da un distico memoriale, frase epitaffio pronunciata nel suo tragico comizio, Padova, 1984: “Strada per strada, casa per casa”. In verità, era abitudine e regola d’ogni tribuno comunista rivolgersi con queste parole ai “compagni” nel decisivo pubblico appuntamento elettorale di piazza; un istante ancora e dagli altoparlanti partivano “Bandiera rossa” e “l’Internazionale”, combustibile emotivo per i volenterosi militanti pronti “al lavoro e alla lotta; “l’Unità” sottobraccio per la non meno doverosa "diffusione".
In questo senso, volendo agire ancor più nel profondo della “nostalgia” politica anche Palmiro Togliatti avrebbe altrettanto meritato di figurare sul documento destinato agli iscritti, posto che sul piano della suggestione epica i funerali di quest’ultimo, assolato agosto del 1964, proprio nella struggente e insieme tribolata storia del movimento comunista nazionale autoctono, hanno avuto un peso narrativo assai superiore alle non meno partecipate esequie di Berlinguer; tra i testi a fronte: “Uccellacci e uccellini” di Pasolini, “I sovversivi” dei fratelli Taviani con un giovanissimo Lucio Dalla animato da astratti furori rivoluzionari e perfino i versi di Nanni Balestrini dedicati con spirito Gruppo 63 alle mille sfumature di rosso delle bandiere che accompagnavano il feretro da via delle Botteghe Oscure alla piazza storicamente destinata ai grandi raduni della sinistra.
Su Berlinguer, Renato Guttuso, membro del Comitato centrale, pittore “ufficiale” del partito, interpellato nel salotto di una baronessa palermitana, presente chi scrive, nel 1981, dopo ponderato, filosofico silenzio, con espressione da dignitario di El Greco presente ne “L’entierro del Conde de Orgaz”, così si espresse: “Francesca cara, è uno che lavora tanto”.
Un giudizio attitudinale riferibile più all’ordinario burocratico, al minuto mantenimento della “linea”, che non allo spessore strategico; meglio era accaduto proprio a Togliatti, da un filosofo marxista ungherese, György Lukács, definito “il più grande tattico della Terza Internazionale”.
Una lapide, una necrologia, un fornetto, una pietra tombale sul reale talento del leader dell’organizzazione comunista “più grande d’Europa”, come orgogliosamente amavano dire di se stessi i comunisti italiani, aggiungendo d’essere “più forti dei compagni francesi, che pure possono contare sull’amicizia fraterna di Picasso”.
C’è da temere che Elly Schlein, più preparata per ragioni generazionali su manga giapponesi ed escursionismo letterario queer - “Occhi di gatto”, “Lady Oscar” e Michela Murgia in luogo di Santa Maria Goretti indicata come modello (accanto alla partigiana martire Irma Bandiera) dallo stesso giovane Berlinguer a capo dei ragazzi comunisti negli anni Cinquanta - non abbia contezza esatta di ciò che realmente abbia rappresentato in tempo reale Berlinguer, ripeto, nel minuto mantenimento della sinistra italiana di ispirazione comunista.
Restando nel “romance” politico, il vocativo sentimentale che porta molti a pronunciare: “Ah, quando c’era Berlinguer…” si affida, ricalcando i gruppi Facebook dove si assiepano ex alunni o residenti di quartieri nel frattempo gentrificati, pronti a fare ordinaria professione di piccola nostalgia, davanti all’idea regressiva inaffondabile che il passato sia per definizione magico-primaria preferibile, se non lucente rispetto all'assente simbolico, compreso in ambito climatico, del presente.
Un ideale scrigno, un tesoretto, un grottino, una tavernetta, una sala hobby, una playstation post-ideologica custode di valori e gemme nobili che il tempo avrebbe crudelmente consumato, ora nella perdita di ogni shining etico e perfino esistenziale, nella prospettiva del vuoto torricelliano finale, nell’annullamento di ogni valore sia personale sia collettivo; magari anche sessuale; e conseguente perdita di capelli e libido. Senza contare la Fiat 128 verde bosco mai sufficientemente rimpianta.
Forse, con pedanteria da aspiranti storiografi, un lusso in tempi in cui la complessità, se non il racconto stesso della verità oggettiva delle cose, ritenuto ormai un inutile ingombro, occorre precisare che già nei primi anni Ottanta la "gestione" Berlinguer veniva messa in discussione, agli occhi di molti segnata da un segno fallimentare, cominciando dalla sua presenza ai cancelli della Fiat di Mirafiori; irrilevante ormai che lo stesso partito, tra il 1974 e il 1975, avesse compiuto un “grande balzo in avanti”. Resta su tutto che nel giugno 1979, Berlinguer ospite di una sezione palermitana, la “Palmiro Togliatti” di via Dalmazia, ammetteva i prodromi del declino progressivo rispetto al quale interrogarsi, provando a dare risposte ai “compagni” lì in attesa, sapendo forse altrettanto che l’orgogliosa “diversità” rispondeva, appunto, a una forma di pensiero magico.
Irrilevante adesso rammentare che il Pci di Berlinguer, convinto d’essere presto chiamato a “grandi responsabilità istituzionali”, intorno alla fine degli anni Settanta, aveva assunto gli abiti del conformismo di governo. Non immaginando il rapimento e l’assassinio di Moro.
Il discorso, l’entusiasmo agiografico corale post-mortem nei confronti dell’ombra di Berlinguer, a quarant’anni da allora, mostra un volto fantasmatico; suggestioni da “romance”, lo si è detto. L’omaggio che gli tributa Antonello Venditti, panama bianco sul pianoforte, con il brano “Dolce Enrico”, contribuisce a farne una sorta di Padre Pio di una rimpianta sinistra ormai dissolta, irriproducibile nel suo iniziale presidio emozionale.
Quale sia stato il reale spessore di Berlinguer, credo lo sappiano gli storici, il suo ruolo, i suoi limiti, quanto fosse più o meno “comunista”, ma anche chi, testimone di quei suoi giorni c’era, senza dimenticare che un ampio pezzo di mondo giovanile in rivolta, non necessariamente eversivo, nel 1977, si riconosceva nel modo in cui l'uomo, il politico veniva disegnato impietosamente da un giornale di satira, “Il Male”.
Il punto non riguarda quanto fosse più o meno “comunista” o “di sinistra”, “riformista”, coraggioso nell’aver detto di sentirsi “più al sicuro sotto l’ombrello della Nato”, e neppure su quanto abbia allontanato se stesso dall’egemonia sovietica, o l’asciuttezza interiore che gli era propria, il modo fermo di rispondere ai cronisti neofascisti durante le tribune elettorali…
In fondo l’emozione che ancora adesso suscita presso alcuni nel vederlo di spalle, l’abito color carta da zucchero, al comizio che chiude la festa nazionale de l’Unità di Reggio Emilia, 1983, un anno prima della morte, in uno scatto straordinario di Luigi Ghirri, custodisce la stessa possibile resa visiva e dialettica della sconfitta, sì, del limite, di un Napoleone visto di spalle infine a Sant’Elena.
E ancora su quanto abbia reso la sua organizzazione, ciò che il ricorrente Togliatti chiamava “la giraffa”, in quanto soggetto in grado di sopravvivere a ogni era geo-politica, destinata a durare, a persistere.
Nel vocativo “Ah, quando c’era Berlinguer...”, vive ormai in verità unicamente l'irrealtà di un’immagine votiva ora e sempre deposta tra grottino, tavernetta, sala hobby, se non proprio scannatoio o magari scortico di un tempo ideologico perduto, pura regressione. Davanti al suo “santino”, alla sua “veronica”, muore ogni dialettica, così come, insieme a lui, Berlinguer, è trapassata anche “la giraffa”.
Credo che se solo provissimo a domandare a Elly Schlein cosa rimane della creatura magica resistente a tutto, scopriremmo che le è più familiare la scimmia di un videogioco anni Novanta - “Monkey Island” appunto - dove il simbolico è altrettanto presente in forma di “pollo di gomma con carrucola”, da lei espressamente citato come manifesto programmatico su Twitter nella prospettiva delle primarie che l’avrebbero vista incredibilmente conquistare la segreteria del Pd.