“Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona”. Nella sua Torre di Babele di ieri, Corrado Augias ha citato Giorgio Gaber per sintetizzare il perché ancora oggi l’individuo di sinistra medio veneri il culto di Enrico Berlinguer, l’ultimo segretario del Partito Comunista Italiano che colpì l’immaginazione popolare, con quella sua figura ascetica di monaco dell’Ideale. E per raccontarne la biografia politica, ha pensato bene di chiamare Walter Veltroni, primo segretario del Pd, che mise definitivamente una pietra sopra a falce e martello, fondendo (male, come dimostrano i mal di pancia dei cattolici piddini per la Schlein) l’ex sinistra Dc, allora sotto il nome di Margherita, con ciò che restava della filiera Pci-Pds-Ds. La tesi di fondo è la solita: il saggio Berlinguer fin dai primi anni ’70 intuì che la via maestra per una sinistra che volesse andare al governo era il “compromesso storico” con il mondo cattolico, ma era “troppo avanti” per quei tempi (e per forza: si sarebbe dovuto aspettare l’89 per la caduta del Muro di Berlino, e il ’91 per l’implosione dell’Unione Sovietica). In più, ed è l’aspetto decisivo, quel sardo mingherlino cresciuto nell’apparato di Botteghe Oscure anticipò pure la “questione morale”, espressione con cui in sostanza coniò l’auto-attribuzione di una superiorità etica, da parte della sinistra che seguì, come arma indispensabile contro l’ultima Dc e più ancora contro Craxi (per non parlare, poi, del berlusconismo). Un santino laico in piena regola, insomma, a uso e consumo di un sinistrismo in drammatica penuria di miti presentabili per l’attuale immaginario, che tutto smussa, leviga e innocuizza in stile Chiara Ferragni. Visto che il violento e sospetto Che Guevara non è più “corretto” (patria o muerte, gridava l’inter-nazionalista), il mite Berlinguer può tornare ancora utile. La memoria prêt-à-porter valeva bene una messa in prima serata. A maggior ragione se perfino Giorgia Meloni è andata a officiarne il rito, visitando la mostra monografica in corso a Roma sull’antico avversario che godeva del rispetto di Giorgio Almirante, suo antico maestro.
Peccato che il giudizio politico su Berlinguer non sia riducibile a un ritrattino beatificante di tale pochezza. Anzi, andrebbe ribaltato. Per quattro motivi. 1) Se aveva certamente una logica, per altro in continuità con il vecchio Togliatti, andare incontro alle masse cattoliche per legittimarsi e giocarsi la partita del potere senza rischiare un golpe manovrato dagli Usa come quello in Cile nel 1973, il famoso “compromesso” si rivelò il grimaldello retorico con cui i comunisti si accodarono non solo alla “solidarietà nazionale” in funzione anti-Brigate Rosse, ma anche alla politica di austerità finanziaria, che cominciò da allora a erodere i diritti sociali di quelle che al tempo venivano chiamate classi lavoratrici. Con l’argomento, intellettualmente ipocrita in quel frangente storico, del valore rivoluzionario della lotta al consumismo, Berlinguer parlava di sacrifici, rigore, conti in ordine come avrebbe fatto un Monti qualsiasi (e come allora predicavano i liberisti della Scuola di Chicago). E difatti, se nelle elezioni del 1976, sull’onda della crisi economica, il Partito Comunista raggiunse il suo massimo storico toccando quasi il 35%, in quelle del 1979 crollò al 30%. Già due anni prima, nel ’77, la Cgil si era presa un schiaffo in pieno volto, sulla “svolta dell’Eur” (“Lavoratori stringete la cinghia”, tradotto: rassegnatevi al “diritto di licenziare” dei padroni), con il segretario Luciano Lama cacciato a sassate dalla Sapienza di Roma. La linea del buon Enrico e del sodale Luciano non era gradita dalla base e così, dopo il tonfo elettorale, di “compromesso storico” non si parlò più. 2) Nel giugno 1976, in un’intervista a Giampaolo Pansa, Berlinguer pronunciò la celebre frase: “Mi sento più sicuro stando di qua”, intendendo sotto l’ombrello protettivo della Nato. Qualche mese prima, a Mosca, aveva detto che ci si doveva battere per una “società socialista” che garantisse il “rispetto di tutte le libertà individuali e collettive”. Il secondo punto era ormai acquisito dai suoi, in Italia. Il primo, molto meno (tanto che l’Unità, riprendendo l’articolo, censurò il passo riguardante l’Alleanza Atlantica). Del resto, aveva già dichiarato esaurita la “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’Ottobre. Erano tutte posizioni, diremmo oggi con il senno di poi, ispirate a un ovvio realismo. Ma contribuirono ad annacquare anche la spinta ideale, teorica e anche pratica del primo partito comunista d’Occidente, che su questa china “realista” si avviò a quella condotta che negli anni ’80 portò al consociativismo, ovvero alla spartizione dei posti degli enti statali e para-statali, con corruzione e bustarelle annesse e connesse. Fallita la strategia del “compromesso storico”, non restava infatti che il compromesso spicciolo. Spicciolo per modo di dire, visto che giravano montagne di denaro pubblico.
3) Finché fu in vita Berlinguer, uomo onesto fino al midollo, la tentazione di buttarsi sulla greppia partitocratica assieme a democristiani, socialisti e partitini di contorno non vi fu, questo va detto. Con un’altra intervista passata alla storia, questa a volta a Eugenio Scalfari nel luglio 1981, fu proprio lui a denunciare la degenerazione che poco più di dieci anni dopo portò all’inchiesta Mani Pulite. Berlinguer fotografò con esattezza la situazione: “I partiti… sono macchine di potere e di clientela… Gestiscono interessi, i più disparati, i più contradditori, talvolta anche loschi… sono federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un ‘boss’ e dei ‘sotto-boss’… i partiti hanno occupato lo Stato e tutte le istituzioni, a partire dal governo”. Era la “questione morale”. Il problema era che il suo Pci, di lì a qualche anno, avrebbe partecipato alla festa. Certo non come le forze governative, e in più con una differenza di non poco conto: mentre gli altri, oltre a girare una quota del maltolto al proprio partito, s’intascavano un bell’obolo per sé, i comunisti, ligi e devoti, di regola si astenevano dal trarne un profitto personale. Ma sempre di grassazione si trattava. 4) Dell’illegalità eretta a sistema non si può naturalmente incolpare Berlinguer, che anzi lanciò l’allarme per tempo. Forse lo fece per esorcizzare un pericolo che intravedeva anche nelle proprie file. Ed è vero, come ha detto ieri sera Veltroni da Augias, che il suo non era “moralismo”, e che già nel 1975 volle mettere fine ai finanziamenti che al partito venivano dall’Urss. Si risolse, però, in una mancanza di lungimiranza tutta e solo politica: non poteva bastare, infatti, la battaglia sulla “scala mobile”, cioè sulla difesa degli stipendi e salari dei lavoratori, l’ultima ingaggiata prima di morire, in quel comizio a Padova l’11 giugno 1984, per compensare l’errore strategico di aver sostenuto la politica di tagli allo Stato sociale negli anni precedenti. Cercare di coprirlo dirottando l’attenzione sulla crisi morale (che era sì reale, ma come sintomo, e non come causa della deriva neo-liberale), offrì un pretesto ai successori per sfoggiare una “diversità” che sulla questione sociale si sarebbe via via sgretolata, fino a perdersi definitivamente ripudiando il comunismo tout court. Un esito obbligato e giustificato, intendiamoci. Ma che ha comportato anche l’adesione a quel pensiero dominante dell’ex nemico capitalista che ci ha portato dove siamo oggi, vale a dire indietro di cent’anni, tornando persino al colpevolizzare i disoccupati come scansafatiche. Roba da padronato ottocentesco.
Riassumendo, a Berlinguer va riconosciuta la conversione, nella Chiesa comunista italiana, ai diritti individuali e civili, dalla libertà di opinione al divorzio. Non avrebbe potuto fare altrimenti, sia perché il gioco della dialettica democratica ormai era patrimonio del Pci, sia perché la liberalizzazione dei costumi marciava al passo trionfale dei consumi. Sulla politica economica e sociale, però, si può quanto meno considerare le sue scelte discutibili e, sia pur a posteriori, tragicamente sbagliate. Ma nel salotto di Augias, ieri sera, di tutto ciò non si è parlato. A noi piace pensare che la lezioncina veltroniana servisse solo da scusa per proiettare per la prima volta in tv quel capolavoro assoluto che è “Berlinguer ti voglio bene”, con Roberto Benigni in studio a presentare il Roberto Benigni di allora, scurrile, coprolalico, sessuomane, rabelaisiano, erede dei fescennini e dei carnasciali contadini, l’immenso Cioni Mario sepolto poi dal trombonesco dantista con cachet holliwoodiano. Noi vogliamo bene al Cioni, a Bozzone ovvero Carlo Monni, l’indimenticabile Monni (“Quella razza siamo noi, l'è inutile far finta, c'ha trombato la miseria, e siamo rimasti incinta”) e ai loro compagni stralunati, che attendevano il “via per la rivoluzione” (“perché Berlinguer non ci dà il via? Perché c’ha da fare… Perché c’ha famiglia…”). E vogliamo bene a Gaber che cantava che “qualcuno era comunista” anche “perché Andreotti non era una brava persona”: altro che compromesso storico. E soprattutto perché quel qualcuno “sognava una libertà diversa da quella americana”: fuck you Veltroni e il tuo I care. Mentre, sinceramente, a Berlinguer non vogliamo tanto bene. Perché le brave persone non ci garbano punto: con loro, al massimo, si fanno le riforme. E le riforme senza rivoluzione, beh, indovinate un po’ a chi vanno sempre in culo?