Il Mystfest di quest’anno, iniziato ieri a Cattolica, oltre ad alcuni classici del crime (Paolo Roversi) e una fumettista giunta alla prova del fuoco (Barbara Baraldi, neo-eletta curatrice di Dylan Dog), ospita anche Elisa De Marco, che venerdì 30, alle 21, porterà il suo Elisa True Crime in piazza 1° Maggio. A discutere insieme a lei di crimini e podcast, anche Carlo Lucarelli, Pablo Trincia, Cecilia Sala e Stefano Nazzi (uscito da poco con “Il volto del male. Storie di efferati assassini” per i tipi di Mondadori). Con un’Elisa più che mai umile e prudente – nonostante un canale YouTube che vanta 853mila iscritti e un podcast, nato lo scorso anno, in ottima salute – abbiamo parlato di delitti, media tradizionali, linguaggi del crimine e… Fuerteventura.
È vero che fai base a Fuerteventura?
Sì, sono qua con mio marito Edoardo, fondamentale per il canale e tutto ciò che ci gravita attorno. Prima delle Canarie abbiamo vissuto tre anni in Cina.
In questi giorni sarai a Cattolica, all’interno di una rassegna prestigiosa come il Mystfest.
Sono molto emozionata. Parlerò di podcast insieme ad autentici assi della narrativa crime.
Un podcast che ci devi fare conoscere meglio.
Nasce dal canale YouTube, ma alcune puntate, adesso, vengono prodotte esclusivamente per il podcast. Il mio obiettivo, all’inizio, era dare sfogo alla mia principale passione: raccontare storie. Meglio se di cronaca nera. Quando il canale è esploso ho cominciato però a vedere un altro fine. Ho sentito il desiderio di renderlo utile. Non sono una giornalista, ne sono cosciente, ma dando voce ai parenti delle vittime credo, a mio modo, di offrire un servizio. Veicolare queste storie con un linguaggio semplice può essere un modo immediato, confidenziale, per raggiungere molte persone. Soprattutto i giovani. Permettendo loro di riconoscere i campanelli d’allarme, la minaccia di una relazione tossica.
Cosa ha permesso al tuo canale YouTube di distinguersi e prendere il volo?
Rendo le storie semplici. E gli ascoltatori percepiscono la mia sincera empatia, la mia sensibilità. Mi sentono come una sorella maggiore.
Ci sono contenuti più premianti di altri?
Dipende dal momento. Quando impazzava la serie tv su Jeffrey Dahmer tutti mi chiedevano un video su di lui. Ho aspettato a farlo perché non inseguo la visualizzazione facile. Quando finalmente l’ho pubblicato è andato benissimo perché ho potuto dedicarci ogni cura e attenzione. Il fatto di non essere schiava delle visualizzazioni mi consente di lavorare in assoluta libertà. Adesso, ad esempio, tutti mi chiedono un video sul sottomarino Titan. Ma per ora non cedo. Non voglio cavalcare l’hype.
Si fa molto crime, sia sui nuovi che sui vecchi media. C’è qualcuno che non ritieni all’altezza?
Senz’altro sì, ma non faccio nomi.
Però non ti immagino fan di Bruno Vespa, dai.
Beh, è un grande giornalista che utilizza un linguaggio diverso dal mio. Lo rispetto molto.
Roberta Bruzzone. Anche su di lei sei così diplomatica?
Ma è bravissima, chi può negarlo?
Dimmi allora cosa eviti tu, di fare.
Non dico di avere scopi prettamente educativi, ma di certo evito il sensazionalismo. I podcast possono essere vissuti anche come intrattenimento, ma bisogna sempre tenere in considerazione sia le vittime sia chi, legato alla vittima, ci può ascoltare. Ho ricevuto molti commenti di cattivo gusto dopo aver messo in onda la puntata di Dahmer, ad esempio.
Perché?
Perché quando gli eventi sono lontani, sia nel tempo che nei luoghi, le persone tendono a viverli come fossero pura fiction. Come se le vittime non fossero reali.
La cronaca nera sa essere molto reale, direi, specie quando è di attualità. Partiamo da Senago con Alessandro Impagnatiello, il barman che ha ucciso la fidanzata, Giulia Tramontano. Cosa ti ha colpito di questo caso?
Sicuramente il profilo “qualunque” di Impagnatiello. Si trattava, all’apparenza, di una coppia normale. Giovani, belli, senza problemi economici. Le persone, davanti a una tragedia simile, pensano sempre: oddio, potrei essere io la vittima. O la mia amica. Non te l’aspetti mai una cosa del genere.
Il delitto atroce all’interno di un contesto “normale” sembrerebbe una cifra della nostra contemporaneità. A differenza di un Dahmer, oggi abbiamo spesso a che fare con gente apparentemente più “funzionante”, meno sola, meno sociopatica. Ma ugualmente letale.
Il delitto che non t’aspetti è sempre esistito, penso a uno come Ted Bundy. Ottima carriera, ottimi voti a scuola, una vita normale. Senza le tecnologie odierne è potuto andare avanti a uccidere, diventare un serial killer. Oggi gente come lui viene fermata prima, non ha il tempo di sviluppare trame criminali troppo prolungate nel tempo. Per cui, quando vengono fermati, scopriamo soggetti al limite, ancora vicini a quella porzione di società sana di cui hanno fatto parte fino a pochi giorni prima.
Spostiamoci a Casal Palocco. Un “incidente” sui generis. Immagini di poterci fare una puntata su Matteo Di Pietro e i Borderline?
Mah, lui è stato accusato di omicidio stradale. In un certo senso sì, è crime. Però non credo farei un video sul caso.
Hai patito il fatto che loro – come te – fossero youtuber e che quindi la dimensione dello youtuber sia stata in qualche modo criminalizzata?
Sì, perché quando dici youtuber dici tutto e il contrario di tutto. Loro facevano challenge abbastanza estreme, io racconto storie e di certo non mi spingerei mai verso certi orizzonti.
Ancora cronaca, stavolta meno recente. Benno Neumair, che a Bolzano ha ucciso entrambi i genitori.
Di quel caso mi ha colpito la figura della sorella, persona molto forte e dignitosa. Ricordo che la madre aveva scritto dei messaggi – credo a un’amica – in cui diceva di aver paura del proprio figlio. Non riesco nemmeno a immaginare la tragedia interiore di quella donna: affermare una cosa così grave – chiedendo aiuto, di fatto – senza però volerci credere fino in fondo.
E quindi senza denunciare.
Esatto.
Ultimo caso: Charlotte Angie, al secolo Carol Maltesi, brutalmente uccisa da Davide Fontana, vicino di casa e “amico” al quale la ragazza si era quasi consegnata non conoscendo, ovviamente, le intenzioni del suo aguzzino.
Su di lei sto preparando una puntata.
Da donna non provi fastidio a dover narrare le crudeltà di omicidi come quello di Carol Maltesi?
Sì, senza dubbio. Queste sono vicende che ti si attaccano addosso. Mi viene naturale empatizzare con ciò che racconto. A volte, quando si tratta di relazioni tossiche, mi immedesimo – ne ho vissuta una in passato – e soffro ancora di più. Dopo, per forza, devo difendermi. Mi serve qualcosa che sciacqui via tutte queste storie, che mi permetta di tenere una distanza di sicurezza.
La tua empatia, effettivamente, è tangibile. Cosa che forse non posso affermare per Bugalalla, ad esempio. Si documenta, informa abbastanza bene, ma trovo fastidiosa la sua tendenza a fare la simpatica attraverso un’ironia talvolta davvero puerile. Sei d’accordo?
L’hai detto tu (ride, nda).