C’è un tempo per nascere e un tempo per morire. E dovrebbe essercene anche uno per mettersi a riposo, quando anagraficamente si ha superato una certa. Il Beppe Grillo-show di ieri sera, ospite l’arraffa-ascolti Fabio Fazio, è stato il revival di un passato che non tornerà più: quello del giullare-profeta, del comico accusatore, del portatore ridens di verità scomode. Il problema è che le sue verità non sono più scomode, che le sue accuse, se vere, non fanno più male a nessuno, oppure fanno male solo a lui (l’attacco a Giulia Bongiorno). E La sua vena di satira sociale e politica, che l’aveva fatto amare da mezza Italia e alla quale il Movimento 5 Stelle deve il successo delle origini, è spenta. Se non fosse stato per l’uscita infelice sulla Bongiorno, attaccata per l’inopportunità di fare “comizietti davanti ai tribunali”, oggi l’unica ragione per dare notizia della sua comparsata era che non ne faceva una in televisione dal 2014, quando, spiazzando tutti, prese posto nel salottino di Bruno Vespa, simbolo vivente del Sistema. Fra l’altro, volendo stigmatizzare il doppio ruolo della Bongiorno, senatrice leghista e presidente di commissione Giustizia da un lato, e dall’altro avvocatessa della ragazza vittima nel caso di stupro tra i cui imputati c’è il figlio Ciro Grillo, ha mischiato quello suo di padre sconvolto da una parte e di uomo pubblico e politico (è pur sempre il “garante” dei 5 Stelle, con diritto di ultima parola) dall’altra. Ma che gli dice il cervello, a Grillo?
Gli dice molte, troppe cose, e confuse. Lo ha ammesso lui stesso, di essere “confuso”. Ma le sue ammissioni non sono mai autentiche: si confondono a loro volta con la battuta, con l’autoironia, e l’ironia, in sé ottima cosa, è anche l’espediente classico per uscire dall’imbarazzo senza affrontare i guai, che vengono buttati sul ridere, cioè in vacca, anziché essere risolti. Grillo non confessa mai per davvero un errore, non dice mai dove, e soprattutto perché, sbaglia. “Non posso condurre e portare a termine un movimento politico, non sono in grado”, ha detto ieri. Vero. Perché è un casinista, come tutte le menti creative. E perché a un certo punto gli è mancata la mente riflessiva, strategica, fredda, di Gianroberto Casaleggio (“era un organizzatore e aveva del metodo, io faccio danni anche da solo quando sono a casa”). Ma si guarda bene, l’autocritico in realtà molto poco autocritico, dallo scendere nei particolari, chiarendo com’è che un portentoso esperimento di forza politica postmoderna, cioè modernissima, nata dal suo carisma, da un blog e da una rete di gruppi locali radunati attraverso internet (i “meetup”, ricordate?), che è riuscita a toccare quota 33% dei voti, sia diventata prima il soccorso giallo del Pd, nel Conte 2, e poi addirittura una stampella del governo Draghi. Fortuna che Giuseppe Conte, che non sarà von Clausewitz ma il pallottoliere lo sa usare, si è sfilato giusto in tempo dall’ammucchiata draghiana ritagliandosi quanto meno lo spazio (scoperto) di soggetto più a sinistra dell’arco parlamentare. E Grillo non può spiegarlo, lo snaturamento oggettivo della sua creatura, da onda anti-sistema a partito integrato, semplicemente perché è stato lui a volere così, tradendone la vocazione. Cioè a tradire sé stesso.
Non è colpa di Luigi Di Maio, alias “Giggino ‘a cartelletta”, e di tutti i Di Maio traditori e sventutisi per la poltrona, se il M5S ha sbandato e si è fatto fagocitare da quell’industria di inscatolamento tonni che è l’Italia istituzionale in grisaglia e obbligo di servitù agli intoccabili moloch. La cartelletta è il prodotto di limiti di fondo che sono anzitutto suoi (e a dirla tutta, in parte anche di Casaleggio: entrambi si rifiutarono sempre di dare un’organizzazione e un pensiero strutturati al grillismo, che potevano almeno rintuzzare la tendenza, che è umana troppo umana, al carrierismo e al voltagabbanismo). Intendiamoci: chi scrive non fa parte del branco maggioritario dei diffamatori per partito preso dell’esperienza grillina, che non era anti-politica, era altroché se politica, ed effervescente, vitale, caotica e contraddittoria sì, ma con spunti e idee che rompevano la cappa di ovvietà e ipocrisia del continuum destra-sinistra. Si pensi solo alle idee, poi abbandonate, di introdurre la democrazia diretta reale, ossia mediante referendum propositivi senza quorum, o quella, in realtà poco più che una boutade, e tuttavia teoricamente dirompente, di provare la socializzazione delle imprese, ovvero la compartecipazione dei lavoratori alla proprietà e alle decisioni aziendali. Fatti tutti i conti, Grillo ha rappresentato un salutare periodo di speranza per gli italiani che, di riffa o di raffa, Berlusconi o Prodi, Meloni o Schlein, la prendono sempre in quel posto perché costituzionalmente privi di potere, dato che la democrazia solo rappresentativa è una truffa con il consenso dei truffati (che son sempre di meno, vedi astensionismo ormai a livelli americani). Però quel Grillo non c’è più. E siccome lui stesso lo sa benissimo, recitare lo stesso copione di sempre, con gli stessi toni, lo stesso format da monologo teatrale, arruffato ma senza più argomenti forti, significa non saper cambiare registro, condannandosi a una parte che non si è più in grado di reggere. È come se Jack Nicholson, anziché giustamente sdegnare proposte d’ingaggio da più di dieci anni, si rimettesse a fare Easy rider. Grillo dovrebbe scegliere una volta per tutte se tornare a fare l’artista, impegnato quanto si vuole ma esclusivamente artista, e magari allora cambiando modalità espressiva, adattandola all’età e all’attualità (quanto servirebbe oggi un neo-Gaber con la sua riflessività e la sua purezza, senza urla, senza sgangheratezze); oppure rassegnandosi virilmente al tempo scaduto, pensando al figlio nelle sedi appropriate, e uscendo di scena con decoro, vale a dire in silenzio. Se la politica non fa (più) per lui, non la faccia più e basta, evitando di cercare una controproducente visibilità senza senso, e per giunta da Fazio, il Vespa di sinistra, emblema di tutto ciò che la Grillo experience aveva osteggiato. Non ci resta che sorriderne, perché piangere non si può: si piangono i morti, non gli ostinati al tramonto che si credono ancora vivi.