Quando i poster si chiamavano ancora “manifesti” c’era modo di vederli brillare alle pareti delle camerette dei ragazzi, tra scrivania di teak e tendine a pois, lì a cancellare ogni ricordo pregresso famigliare, quasi a combattere gli arredi tristi avuti in dote dai genitori: il diploma della prima comunione, la foto dei nonni, i sette nani e Biancaneve. I manifesti raccontavano allora un’idea visiva di piena libertà affermata, forse perfino conquistata, il sogno di discontinuità di chi, ragazzo o ragazza, aveva scelto di fissarli al proprio muro, come un diario per immagini; nastro adesivo o puntine da disegno faceva lo stesso. Negli anni Sessanta, gli svedesi tra i primi intuirono l’affare sotto la sigla “Scandecor”, offrendone al mondo a milioni. Il più famoso del campionario mostrava un tramonto tropicale: Caraibi di carta si riversarono nelle case: riva, spiaggia, albero sbilenco a suggerire l’ombra, l’idea della gioia notturna e calda, fuoco e chitarra, e tutti idealmente in circolo a cantare. Miraggio di fuga dal quotidiano soffocante della famiglia. Andava però altrettanto bene il manifesto di Easy Ryder, il film, Peter Fonda in sella a un chopper, vita immaginata on the road, il tramonto in questo caso era però californiano; il peso degli esami, dei compiti a casa imposti dai prof in grisaglia buttati via, tutti alle spalle; nel manifesto, non ancora poster, viveva infatti la promessa virtuale di una nuova imminente fuga, sebbene immaginata in quadricromia. In Italia, un editore attento allo spirito del tempo, Giangiacomo Feltrinelli, clima di “contestazione generale”, intuì che si potesse farne un’occasione politica e commerciale, nelle librerie omonime, accanto a Il Capitale di Marx e alle poesie di Neruda e di Rimbaud, e ancora alle edizioni “militanti” Samonà e Savelli, giunse il manifesto con il volto di Mao, ossia “l’Oriente che risplende di rosso”, e ancora, su tutto, irrefrenabile, il primo piano di Ernesto Guevara, anzi, “Il Che”, “guerrillero heroico”, lo scatto di Alberto Korda, foto casuale divenuta incredibilmente iconica: quel giorno, a L’Avana, accanto al lui, Guevara, c’erano pure Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, filosofi rimasti fuori dall’inquadratura. Anche Trotsky, considerato allora eretico dai comunisti ufficiali, se non un “traditore”, conquistava la sua stampa. Anche il pittore Gastone Novelli, straordinario artista dell’ultimo scorcio dei Sessanta, non poté fare a meno di appenderlo, proprio accanto al Che, nella sua casa di Saturnia, immagini-manifesto dal valore quasi votivo. E con lui mille altri aderenti anonimi alla stessa immagine. Certi manifesti, infatti, oltre a mostrarsi come complemento d’arredo “rivoluzionario”, dichiaravano un pronunciamento identitario…
Ora che ci penso, tra le molte cose che oggi chiameremmo comunemente “gadget”, sempre le Feltrinelli, offrivano una riproduzione della bandiera rossa della Comune di Parigi, identica a quella che Giò Pomodoro avrebbe incastonato nel suo lavoro in situ per l’atrio delle Botteghe Oscure, già sede della direzione del Partito comunista italiano: “Campo di misurazioni”, il titolo. Ma stavo dimenticando quell’altro manifesto con il simbolo pacifista: “Fate l’amore non la guerra”, bianco e nero segnaletico su sfondo bianco. Gli Editori riuniti, per non essere da meno, nel 1967, in occasione del 50º anniversario della Rivoluzione d’ottobre, commercializzarono una cartella di manifesti apologetici tematici, dove il più ambito mostrava il fotomontaggio di Rodčenko: una ragazza, mano a megafono accanto alla bocca, grida in cirillico: “Libri!”, la modella non una figurante qualunque, ma Lilja Brik, grande amore del poeta Vladimir Majakovskij. Un’altra cartella offriva invece i manifesti della guerra civile spagnola, segnatamente del bando repubblicano antifascista. I cubani, oltre a sòn e salsa, si sappia, sotto il regime castrista hanno dato vita una scuola di grafica pregevole sotto la sigla OSPAAL, primeggiando per originalità stilistica e carattere iconico, rimane fisso nella memoria collettiva generazionale il manifesto delle Pantere nere: il primo piano della bocca spalancata e dentata della belva omonima segnato dalla scritta “Black Power”. Tornando a visitare il catalogo Feltrinelli, la rete riporta agli occhi con font liberty “Love with Sex”. Sempre sul finire degli anni ‘60, giorni del Cantagiro, un rotocalco cosiddetto “beat”, destinato al pubblico adolescenziale - “Giovani” il titolo paradigmatico - settimanalmente offriva un volto famoso di cantante o complesso famosi destinato alle già menzionate camerette o piuttosto alle officine dei gommisti, lì accanto alle ragazze dei manifesti pubblicitari d’ogni marca di pneumatici. Erano “I manifesti di ‘Giovani’”, pronti a innalzare Rolling Stones e Beatles, ma anche Adriano Celentano e Don Backy indicati come “I due nemici”. E perfino Mario Tessuto, quello di “Lisa dagli occhi Blu”, ne aveva diritto; fisionomie ormai dimenticate, rimosse.
Intendiamoci, gli appassionati di manifesti potevano attingere anche all’infinito catasto delle fotobuste cinematografiche, si sarà però compreso che le nostre considerazioni, la nostra rassegna sia pure parziale, inquadra soprattutto i significanti d’arredo politici, ludici, musicali e magari perfino ricreativi. Ora che ci penso, perdonate la digressione, c’era anche il manifesto “Wanted” dedicato a Gesù, indicato come “rivoluzionario, estremista”. Una trattazione a parte, entrando in un ambito ben più collezionistico, potrebbe riguardare i pezzi, realizzati in serigrafia, durante il maggio ‘68 francese, dall’Atelier populaire: naso e chepì di De Gaulle messi all’incanto dagli studenti, da immaginare affissi tra rue Gay-Lussac e boulevard Saint-Michel; tra “il pavé e la spiaggia”. In territorio “psichedelico”, tra LSD e le suggestioni dei “vagabondi del Dharma” resta invece indimenticabile, iconicamente leggendario, forse anche un po’ osceno, il manifesto della “Joint girl”: lei accovacciata, le gambe nude in primo piano, lo spinello come in una preghiera tra le dita, fluorescente al buio. A seguire i manifesti “griffati” John Paul of Carnaby Street, testi visivi a fronte della Swinging London, stilemi pop fioriti, bottino di lontani soggiorni turistici nel Regno Unito, quando anche slip e canotte erano decorati tra optical e pop art. Oggi li si può trovare unicamente alle aste. Non vanno neppure dimenticati i manifesti dei Peanuts, commercializzati dalla Milano libri, già casa editrice di “Linus”, i più ambiti e ormai preziosi mostrano Spike, fratello maggiore messicano di Snoopy che vive nel deserto, solo un cactus per amico. In anni lontani, scusate se precipito nell’autobiografismo, ma il momento storico lo pretende, ricordo di avere avuto fisso al muro della mia stanzetta il manifesto di Leila Khaled, bella fedayn palestinese, kefiah e kalashnikov, corrispettivo femminile in terra di Al Fatah, meglio, del marxista Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, di Angela Davis, anche quest’ultima più volte assurta agli altari delle riproduzioni grafiche care ai ragazzi in rivolta. Quando i manifesti avevano un’eco identitario, politico; il tempo ne ha infine cancellato ogni significanza semantica, adesso nient’altro che fogli di carta sui muri della memoria, nel tempo successivo, il tempo dei poster, come racconta non meno cartacea la post-modernità.