Adorno, dunque. Era il 1968, giorni tra “contestazione giovanile” e “Vogliamo tutto”, quando il filosofo marxista precipitò in una crisi profonda, gli strumenti che fino a quel momento gli giungevano dall’elaborazione teorica della “Scuola di Francoforte” non erano più sufficienti a fargli comprendere la sostanza ontologica del mondo e dei suoi accadimenti, le pulsioni dei “giovani” in primo luogo. Avvenne infatti che proprio il filosofo che aveva cercato di rimettere ordine nei faldoni del marxismo insieme a Max Horkheimer e a Walter Benjamin venne allora contestato da alcune studentesse: le ragazze si presentarono a seno nudo durante l’ora di lezione, interrompendo un suo seminario. Era il Sessantotto, ma era anche la fine di un magistero intellettuale. Il nostro filosofo la presa molto male, precipitando in uno stato di “krisis” profonda personale ancor prima che politica. Al punto di cercare conforto presso l’amico Herbert Marcuse. Sebbene quest’ultimo vivesse ormai negli Stati Uniti, il collega provò ugualmente a consolarlo con argomenti stringenti: un nuovo soggetto era infatti apparso sulla scena politica e antropologica; senza contare le ragioni del Situazionismo che suggerivano la dimensione “desiderante”; la rivoluzione come un grande orga*mo collettivo. Marcuse, a suo modo, facendosi carico della rivolta giovanile, comprendeva infatti il senso politico di quei seni nudi, non per nulla sulla sua tomba, a Berlino, nel Cimitero di Dorotheenstadt, dove sono sepolti, fra gli altri, Hegel, Fichte, e addirittura Bertolt Brecht, vorrà anni dopo incisa una frase possibilista: “Weitermachen!”: Continuare!
Evidentemente, c’era ottimismo in Marcuse, confortato dal concetto non meno desiderante dell’immaginazione al potere.
Quell’ottimismo che vorremmo condividere anche noi, destinati a vivere ed esperire la post-modernità, la sconfitta d’ogni possibilità ideologica, quest’ultima perfino con un certo sollievo. Peccato che quel possibile, ripeto, ottimismo, si sia definitivamente dissolto, spezzato davanti ai nostri occhi pochi giorni fa, davanti al semplice fuori onda di Andrea Giambruno, una vicenda a suo modo banale, del tutto secondaria rispetto alla complessità pretesa da ogni rispettabile discorso filosofico, semmai semplici battute da astanti che uccidono il tempo, l’insoddisfazione piccolo-borghese, metti, davanti a un Punto Snai, commentando corse tris o partite di pallone segnate dalla sconfitta, soldi buttati, maledicendo un “gratta e vinci” vanamente acquistato, piccoli fallimenti da malinconia rionale.
Sarebbe forse bastata questa consapevolezza per dare l’esatto valore al caso Giambruno-Meloni, una semplice questione privata tra creature antropologicamente simili, la fine del rapporto tra Giorgia e Andrea, quest’ultima incidentalmente presidente del Consiglio, padre della piccola Ginevra, figlia di entrambi, il fiocco rosa virtualmente ancora lì davanti al portone dello stabile dove risiedono, il portinaio a complimentarsi… Certo, c’è a margine una questione di satira ma, come credo si possa intuire, del tutto marginale, soprattutto se consideriamo che la satira è ormai un lavoro diffuso, una pratica affidata alla totalità degli utenti dei social, autoconvocati “battutari”, anche i più sciocchi, tra meme e faccine che ridono, al punto tale che non si sente più alcun bisogno, come avveniva invece un tempo - pensate al “Male” oppure a “Cuore” - di un giornale che ne sia portatore, un foglio che utilizzando gli acidi dell’ironia ribalti il conformismo delle note ufficiali in sarcasmo, sberleffo, evidenziatore giallo del ridicolo davanti a notisti politici e commentatori paludati, facce da biochimici prestati alla discussione politica.
Ora, sarà pur vero che nella memoria futura, perfino storiografica, il governo Meloni verrà vilmente rubricato sotto la voce “governo Giambruno” e tuttavia in nome del rispetto dell’intelletto, proprio davanti al modesto spettacolo della secolarizzazione della satira lungo le stringhe dei social, non si può fare a meno di rilevare un senso di insofferenza quando le chiose sul caso giungono da una Selvaggia Lucarelli, al punto da trasformare ogni genere di paccottiglia in una sorta di Tractatus logico-philosophicus, dove la necessaria riflessione ontologica si confonde con le considerazioni sull’opportunità o meno di recarsi dal coiffeur per le extension terribile immaginare l’ex filosofo-giardiniere Wittgenstein trasferirsi dietro un bancone dell’OVS.
E qui, tornando al ricordo del povero Adorno precipitato nell’abisso della depressione dopo la vista dei seni minacciosi delle sue studentesse - un’immagine che rimanda anche a un film della commedia all’italiana, Vedo nudo, dove il povero Nino Manfredi ha l’illusione che la signorina buonanotte che chiude le trasmissioni sollevi la maglietta per mostrargli le tette - mi chiedo come agli occhi delle mille Selvaggia Lucarelli che come ultra corpi sembrano popolare il dibattito social il “cupio dissolvi” d’ogni intelligenza verrebbe interpretato, forse citando ancora una volta la battuta della “supercazzola” che lo stesso Mario Monicelli riteneva non meritevole di fama e riscontro? Dimostrando ancora una volta in modo sempre più plastico che la secolarizzazione della banalità assecondata dalla mediocrità diffusa è ormai un dato acquisito; povero Adorno, e soprattutto poveri noi costretti a dare valore a chi durante un fuori onda si tocca il pacco nella prospettiva futura, perché no, già che c’è, anche di “fare l’elicottero”.