Due condanne per ergastolo, in due processi per femminicidio, non sembrano accontentare il chiassoso femminismo che sembra sempre più vicino al marketing e all'autoreferenzialismo, piuttosto che a una causa ideologica. Alessandro Impagnatiello condannato in primo grado a passare il resto della sua vita in prigione non sembra soddisfare nessuno? Quando siamo arrivate a non celebrare più le vittorie? L’Italia ha assistito a due condanne esemplari che segnano un momento cruciale nella lotta contro la violenza sulle donne. Impagnatiello, colpevole dell’omicidio della compagna Giulia Tramontano - e del loro bambino non ancora nato - e il caso di Antonio De Pace, l'infermiere calabrese che il 21 marzo 2020, al culmine di una lite, uccise la fidanzata Lorena Quaranta picchiandola e strangolandola per poi tentare il suicidio, condannato anche lui all'ergastolo. Due sentenze esemplari, due pene massime, un segnale che forse lo Stato (si spera) sta iniziando a reagire adeguatamente al problema del femminicidio nel nostro paese.
Ovviamente anche per Filippo Turetta, assassino di Giulia Cecchettin, è stato chiesto l'ergastolo. Eppure, anziché riconoscere questi passi avanti, una parte del dibattito pubblico sembra concentrata su ciò che manca. Tra i commenti più diffusi sui social, molti lamentano che “la vera vittoria sarà quando le donne saranno libere di lasciare un uomo senza sentirsi in pericolo o di camminare per strada la sera”. Un’aspirazione giusta, condivisibile, ma che non dovrebbe oscurare ciò che è stato ottenuto: due assassini condannati nel modo più severo e in tempi (come nel caso di Impagnatiello) relativamente brevi. Va forse ricordato al mondo che i tribunali non educano, ma applicano leggi. Ed in questi casi, le leggi sono state applicate senza se e senza ma. Ignorare o sminuire questo risultato rischia di compromettere il valore della battaglia per i diritti delle donne. Se queste non sono vittorie, allora cos’altro potrebbe esserlo? Anche il caso di Francesca Ghio, consigliera comunale genovese, ha generato non poche discussioni. Raccontare di aver subito violenza a 12 anni è stato un atto coraggioso, ma il messaggio è stato offuscato quando Ghio ha scelto di attaccare Giorgia Meloni, trasformando un’esperienza personale in un’arma politica. Viene tristemente automatico chiedersi se questa sia stata una scelta per attirare attenzione su una causa comune (come tutte speriamo) o un episodio di strumentalizzazione personale (come molti sospettano). In entrambi i casi, la lotta femminista rischia di perdere credibilità quando si lascia contaminare da rancori o rivalità ideologiche. O quando interviene a gamba tesa la vanità.
Non mancano poi esempi di un femminismo che sembra allontanarsi dal buon senso. Come nel caso dell’artista di X Factor, Francamente, creatura di Jake la Furia, che, unica donna finalista, ha criticato la scarsa rappresentanza femminile in gara: “Come possiamo sentirci rappresentate?” Una domanda legittima, forse, ma che dimentica un elemento cruciale: il talento non ha genere. Insistere sul “sistema” come unico colpevole di ogni squilibrio rischia di trasformare la lotta per i diritti in una battaglia autoreferenziale. Essere donne non dovrebbe significare ottenere vittorie a prescindere, ma conquistarsele con merito e competenza. La condanna di Impagnatiello rappresenta un messaggio forte ai futuri “cacciatori di donne”: lo Stato non chiude più gli occhi. O almeno insomma, speriamo sia così per davvero. Tuttavia, la giustizia da sola non basta e su questo non ci piove. La prevenzione parte dall’educazione nelle scuole, dalla famiglia, dalla società. Combattere la violenza significa formare nuove generazioni capaci di rispettare ogni individuo, a prescindere dal genere. E a noi spetta il compito di educarli senza sofforcarli con messaggi mal comunicati.
Bello l’idealismo, ma forse è ora di smettere di fingere di vivere nel paese degli unicorni e accettare una scomoda verità: come diceva Isaac Asimov, “all’umanità piace fare schifo”. E lo schifo non ha genere. Voglio essere giudicata con lo stesso metro di un uomo, su tutto. Rivendico il diritto di essere mediocre, di non eccellere, senza che ciò venga attribuito al mio genere. E ciò che vinco, voglio vincerlo perché sono la migliore, non perché mi è stato concesso per “equilibrio”. Non voglio le quote rosa della società, voglio ottenere il meglio perché me lo sono conquistato come persona, non perché persona dotata di un utero. Questa, forse, è la vera parità: il riconoscimento che il genere non dovrebbe mai essere un filtro, né in positivo né in negativo. Una parità che inizia con il celebrare le vittorie, anche quelle che non sembrano perfette. Perché ogni passo avanti è una conquista. E senza di essi, il futuro rimane solo un’illusione. E da donna vorrei lanciare un sentitissimo appello alle altre femmine del genere umano: non abbiamo bisogno di ricordare al pianeta che "lo schifo" non ha genere, quindi signore, visto che come sempre il livore funziona molto meglio del "bello" e del "giusto", finitela di rompere i coglioni per quattro like. I riflettori non devono essere puntati su di voi, ma su di noi.