La vicenda di Francesco Magnani mette in evidenza soprattutto una cosa: l’insopportabile cappa di moralismo che oramai pervade ogni anfratto della società. Essa si aggira nella notte della maldicenza come Jack lo Squartatore tra le vie di Londra a purgarla dalle disoneste. Francesco Magnani è stato preso dai cosiddetti “cinque minuti”: a chi non è mai successo? A chi non è mai capitato di esagerare col bere, o di dire qualcosa che non si pensa? Perché quell’urlo ripetuto due volte, “W le Brigate Rosse”, era insieme un magnifico (sì, magnifico) paradosso e un atto di pura libertà. Se qualche colpevole c’è stato nella vicenda (che, diciamolo, ci ha fatto sghignazzare non poco, ma non contro Magnani), oltre alle banali colpe di un incidente stradale e probabilmente di guida in stato di ebbrezza, l’orrore sta in quei cellulari che riprendevano il giornalista, quell’occhio da Grande Fratello puntato a spiare, a giudicare, a moralisteggiare. Non si nota facilmente, ma le piccole videocamere dei telefonini sono l’esatta immagine della professione giornalistica per come è diventata. Welcome to Favelas, media indipendente al quale dobbiamo la diffusione del video e l’identificazione del “volto noto”, ha scritto forse il titolo più bello dell’anno (e senz’altro nella top ten di tutti i titoli mai scritti): “SI SCHIANTA CON LA MACCHINA COMPLETAMENTE UBRIACO, OFFRE DROGA AI TESTIMONI PER NON FAR CHIAMARE LA POLIZIA, MINACCIA TUTTI, SI SPOGLIA, E INNEGGIA ALLE BRIGATE ROSSE”.
Un titolo che non può non richiamare alla mente un passo de Il falò delle vanità, di Tom Wolfe (nella traduzione di Ranieri Carano), che – il lettore ci ringrazierà – riportiamo per intero poiché inchioda con esattezza la nostra epoca, i testimoni armati di videocamera e persino lo sbrocco del giornalista: “Fallow approfittò di questo iato per attraversare la stanza in direzione del suo cubicolo. Nel bel mezzo del campo dei terminali, si fermò e, con aria altamente professionale, prese in mano una copia della seconda edizione, appena portata su dalla tipografia. Sotto la testata THE CITY LIGHT la prima pagina era tutta formata di lettere a caratteri cubitali allineati sulla sinistra – SCOTENNA LA NONNA POI LA DERUBA – e una fotografia che occupava la parte sinistra. La fotografia era un ingrandimento di un formato tessera sorridente: la fotografia di una donna, una donna, una certa Carolina Pérez, di cinquantacinque anni e dall’aria non particolarmente nonnesca, con una testa lussureggiante di capelli neri sollevati dietro nell’antica foggia di gentildonna spagnola. Dio santo! Scotennarla doveva essere stata una bella impresa! Se si fosse sentito meglio, Fallow avrebbe pagato un silenzioso tributo alla straordinaria esthétique de l’abattoir che consentiva a questi svergognati demoni, suoi datori di lavoro, suoi compatrioti, inglesi, progenie di Shakespeare e Milton, di offrire simili orrori giorno dopo giorno. Pensate alle finezze sintattiche, come questa che li aveva ispirati nella creazione di un titolo tutto verbi e complementi oggetto, con il soggetto latitante: quanto di meglio per farvi procedere per pagine e pagine nere e diffamatorie alla ricerca di chi era tanto malvagio da poter completare la frase! Pensate alla perseveranza da bruco che aveva portato un inviato a invadere casa Pérez e rintracciare una foto della nonnina in grado di farti sentire l’azione sanguinosa sulla punta delle dita, nella giuntura delle spalle! Pensate alla doccia fredda di “scotenna la nonna”… “poi la deruba”. La superflua, geniale doccia fredda! Cristo, se avessero avuto più spazio, avrebbero aggiunto: “e poi lascia tutte le luci della cucina accese”.” Nel titolo di Welcome to Favelas relativo a Francesco Magnani il colpo di genio è quel “si spoglia”, perfetta metafora letteraria di ciò che deve essere avvenuto nella mente e nelle palle del giornalista di La7, obbligato – come oggi pare la professione richieda – ad alzare il ditino, a bacchettare parole (persino le proprie, quanto ci autobacchettiamo da un po’ di tempo a questa parte) e probabilmente anche ad allinearsi a idee non proprie per amore della pagnotta, perché si tiene famiglia o per il piacere – e allora lo sbrocco sarebbe ancora più giustificato – di essere, appunto, un “volto noto”. Un compromesso con la propria coscienza che – la mente funziona così – non può restare a lungo sopito.
Come si dice, tacere e allinearsi a una condotta sbagliata finirà per renderti vittima di quella stessa condotta. Che è quello che è accaduto, nel momento in cui le videocamere si sono accese su Magnani ed egli si è reso conto che anni e anni di ditini alzati e bacchettate si stavano ritorcendo contro di lui. Quello è il senso del “paradosso” che ho definito magnifico: se la società è questa, se a questa società ho prestato il mio volto – che è anche la mia vita – se tutti i moralismi che sono stato obbligato ad appoggiare, enfatizzare, lodare nel mio tentativo di fare carriera possono essere spazzati via da un telefono che mi riprende, allora evviva le Brigate Rosse. Anche perché – almeno così pare – non c’erano stati feriti: era stato un tamponamento. E Magnani – probabilmente sapendo di non superare l’alcoltest – cosa stava facendo? Direi semplicemente: ragazzi, sono ubriaco e forse un po’ drogato (almeno stando al dietro le quinte pubblicato da Welcome to Favelas), il danno ve l’ho fatto, l’assicurazione non mi coprirà, mettiamoci d’accordo su quanto vi devo e se volete ci facciamo anche una canna. Non aveva considerato, Magnani, che la televisione e i media – ossia il sistema al quale aveva regalato la sua vita professionale – avevano indottrinato chiunque al gusto dello scandalo, al ditino alzato, alla bacchettina. E cosa c’è di più “gustoso” che bacchettare un “volto noto” abituato a bacchettare egli stesso? È questo il corto circuito che gli ha fatto letteralmente esplodere il cervello? Che ha portato il povero Magnani a dire anche cose che non pensava (non lo avete mai fatto, voi?) come “non vedo l’ora di spararvi in testa”? Altra metafora per dire: “non vedo l’ora di farvi un buco nella testa per farvi uscire fuori la merda che avete dentro e che, per somma beffa, è anche la mia”. Perché quel “mi avete rovinato la vita” altro non era che un urlo contro i propri fantasmi: non erano i pazzi col cellulare che lo riprendevano ad avergli rovinato la vita, ma lui stesso con i suoi compromessi ipocriti, dei quali finalmente si stava rendendo conto. Assistendo al modo in cui i media tutti hanno reagito alla vicenda – cioè non dandone notizia, non parlando, insabbiando, pubblicando e poi cancellando la notizia dai siti (come ha fatto Il Giornale) – nel goffo tentativo di ristabilire l’ordine dell’ipocrisia, a noi di MOW l’unico “normale” sembra proprio Francesco Magnani, nel momento in cui sbrocca. P.S. Fino a questo momento la conferma dell’identità del tizio che sbrocca viene data solo da Welcome to Favelas. Ma anche se l’uomo ripreso dai cameraman improvvisati e moralizzatori non fosse il giornalista, la riflessione che avete letto sarebbe ugualmente valida.