Giorgia Meloni e la cintura – rigorosamente nera – di paraculismo politico. Passi la politica estera, dove l’inesorabile cerchiobottismo della premier tra Donald Trump e l’Ursula von der Leyen o il Macron di turno ha spesso trovato assoluzione nei termini “equilibrismo” o “pontiera” – ruolo sul quale non ci sarebbe nulla da eccepire, se l’Italia riuscisse a capitalizzare davvero qualcosa – per esaltarne le doti da professionista della Realpolitik. Ma se ci spostiamo in casa nostra e il campo di battaglia diventa il referendum dell’8 e 9 giugno sull’ampliamento della cittadinanza e sulla tutela del lavoro, il gioco non funziona più. Quel che è successo, ormai lo sappiamo: intercettata ai margini della parata del 2 giugno, la presidente del Consiglio ha risposto a una domanda che le chiedeva se sarebbe andata al seggio dicendo: “Vado a votare ma non ritiro la scheda”. Che tradotto significa: “Vengo, e mi metto così, vicino a una finestra, di profilo, in controluce…”, come diceva Nanni Moretti in Ecce Bombo. Roba che, in confronto, il trasformismo da Gattopardo – “Cambiare tutto per non cambiare niente” – dei vecchi democristiani sembra un manifesto dei punkabbestia. Perché con quelle cinque parole – in pratica, la “tweettizzazione”, il neologismo con X è inservibile, di un lungo, arzigogolato, quanto fumoso da Prima repubblica – Meloni continua a muoversi nel solco di quell’ambiguità che l’accompagna da quando è al governo. Una doppiezza con la quale può permettersi di giocare un po’ per demeriti delle opposizioni, un po’ approfittando della scarsa incisività di molti giornalisti (almeno tra quelli ai quali si concede).

La strategia di Meloni è, come spesso accade, il tentativo di mettersi in una posizione win-win. Va ricordato che per essere considerato valido, il referendum abrogativo deve raggiungere il quorum del 50 per cento più uno degli aventi diritto. Uno scoglio non da poco nell’Italia di oggi, dove persino il governo di Meloni – che pure è considerato “solido” se comparato a quelli degli anni passati – stato votato da appena il 15 per cento degli aventi diritto nel corso delle elezioni politiche meno partecipate della storia. Va da sé dunque, che raggiungere la soglia stabilita da quorum – individuata al tempo dei padri costituenti, quando ai referendum andava a votare il 90 per cento degli aventi diritto – potrebbe essere molto complicato, come hanno sottolineato numerosi analisti nei giorni passati. Tornando a Meloni, la sua scelta le consente di non prendere posizione e dotarsi di un argomento a suo favore indipendentemente dall’esito del voto. Se il quorum fosse raggiunto, potrebbe rivendicare la scelta di essere andata alle urne, e quindi di non aver disertato in toto il diritto al voto. Se la consultazione popolare fosse abortita sul nascere invece, Meloni potrebbe sottolineare il fatto di non aver ritirato le schede. Questa è l’interpretazione data dall’esperto di comunicazione politica Patrick Facciolo, che parla della “raffinatezza” della premier nell’ordire queste scorciatoie.

Ma è un trucco che funziona davvero? Il tentativo di far passare l’astensione per una scelta nobile, un gesto tecnico, quasi una meditazione zen, è davvero qualcosa che gli italiani si berranno? Così facendo Meloni si mette il cappotto della democrazia per restare sull’uscio, continuando a ripetere agli elettori “State a casa, che ci pensiamo noi”. Una cosa paradossale, dal momento che il governo e, soprattutto, Fratelli d’Italia, hanno sempre utilizzato il tema del voto e del consenso popolare per tirare stilettate a tutti i governi di coalizione formatisi quando sedevano agli scranni dell’opposizione. Una tattica che, a giudicare dalle elezioni del 2021, ha funzionato nel compattare gli elettori di centro-destra e destra-centro ma non nel suturare la profonda ferita dell’astensionismo. Forse è proprio per questo che Meloni non ha detto esplicitamente “boicottate”. Alla premier, che ha fiuto per il potere, basta dare – o meglio, non dare – l’esempio.