A trent’anni dall’attentato di Capaci in cui perse la vita assieme alla moglie e agli agenti della scorta, Giovanni Falcone è in grado di donare ancora qualcosa di sé, del suo lavoro e del suo pensiero su Cosa Nostra. Spezzoni audio originali, testimonianze di chi l’ha conosciuto e intervistato, flash e ritagli dell’epoca si addensano in podcast di recente uscita che aggiungono particolari, alcuni anche inediti, al profilo del giudice che assieme al collega Paolo Borsellino ha segnato la storia della lotta alla mafia in Sicilia.
Sul Corriere.it le puntate del format “Mi fido di lei” si snodano sul filo dei ricordi di Marcelle Padovani, la giornalista francese che nel 1991 trascrisse nel libro “Cose di cosa nostra” il contenuto di ben 45-50 ore di conversazioni, scandite da 22 pranzi (tutti immancabilmente terminati “con un bicchiere di vodka”), in compagnia del magistrato palermitano. Il titolo, voluto da Falcone, accennava alla vasta panoramica che la Padovani desunse da una sterminata massa di appunti, di dettagli di una precisione mnemonica chirurgica, ricavati da quella parlata di marcato accento siciliano, dall’incedere un po’ cantilenante, quasi indolente, di un uomo che “si sentiva solo ma non cercava la solitudine, la subiva”. Un uomo cresciuto nel rione della Kalsa di Palermo, lo stesso del primo pentito storico di mafia, Tommaso Buscetta. Un uomo che nei primi anni ’80, quando il capoluogo della Sicilia veniva sconvolto dagli omicidi contro poliziotti e magistrati (Antonino Cassarà, Boris Giuliano, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici), lavorava, solitario, chiuso in un ufficio al terzo piano del Palazzo di Giustizia, difeso da due porte blindate e da telecamere che lui stesso controllava. Specialmente l’assassinio di Chinnici, giudice istruttore come lui, ammazzato con tecnica mediorientale tramite un’autobomba, fu “la svolta” che lo colpì molto. Anche per la rara qualità di Chinnici, a detta di Falcone, di “concepire il proprio ruolo” in “modo nuovo”, dotato com’era di “grande capacità organizzativa, e soprattutto di grande coraggio”, aspetti che ereditò in pieno. “Falcone – racconta la Padovani – organizzò la lotta alla mafia da solo, così come organizzò da sé la sua sicurezza personale”. Lo Stato, infatti, pareva imbambolato, in preda al “lassismo”. Il primo incontro fra i due, a fine 1983, avvenne in piena guerra di mafia. Ne scaturì un primo articolo per il Nouvel Observateur, intitolato “Le petit juge et la mafia”, un piccolo giudice contro la piovra. Ne nacque un’amicizia che portò poi ai dattiloscritti del libro, di cui oggi la Padovani ripesca alcune correzioni: “Mi fece cambiare, ad esempio, una frase in cui aveva detto che chi, fra gli uomini dello Stato, aveva perso la vita fino ad allora, aveva peccato di sottovalutazione e di superficialità, preferendo mettere semplicemente che aveva fatto errori nell’analisi. Non si scherza con Cosa nostra diventò Non è possibile distrarsi con Cosa Nostra”. Mentre il fotografo Franco Zecchin, a quei tempi collaboratore di Letizia Battaglia nel documentare le stragi, ricorda come ancora allora “non si parlava di mafia”, la voce di Falcone è riconoscibilissima nel far emergere le verità di fondo sulla criminalità di tipo mafioso: “La mafia è capace di adattarsi alle mutevoli esigenze del momento apparendo sempre immutabile. In realtà non c’è nulla di più mutevole, nella continuità, di Cosa Nostra”. Falcone sapeva “immedesimarsi nella mentalità di chi doveva combattere, e trattava sempre i mafiosi come esseri umani”, sottolinea la Padovani. Aveva, insomma, capito profondamente la mafia perché, da buon siciliano di provenienza popolare, la conosceva per così dire dal di dentro: “Un siciliano è abituato a convivere con la morte, e un mafioso ancora di più”.
Nel podcast “Le parole inascoltate”, l’agenzia Askanews mette in fila degli audio esclusivi in cui è il giudice il protagonista assoluto. Si va in profondità nello scandagliare il fenomeno mafia, a partire dalla consapevolezza che si tratta di un’organizzazione con capitale indiscussa Palermo, diramata “a reticolo” sul territorio, in cui “basta che solo alcuni diano gli ordini, che tutto il resto diventa un fatto automatico”. Un esercito gerarchizzato e tentacolare che, almeno a quei tempi, non si occupava per intero del traffico di stupefacenti (monopolizzati da Totò Riina, detto ‘u Curtu: “mi dissero che non si muove foglia senza che il Corto non dia il suo benestare”), e contro il quale si muoveva una magistratura che inizialmente non ci aveva capito granchè: “Io mi ricordo che agli inizi, ora per fortuna non più – dice Falcone - colleghi peraltro validissimi di altre parti d'Italia pensavano di venire qui ad insegnare a noi come si fanno le indagini e dirci cosa è la mafia. Colleghi che pensavano che dal piccolo trafficante o dallo spacciatore, risalendo a ritroso la catena dei passaggi sicuramente sarebbero risaliti al laboratorio di eroina. Obiezioni che mi sento dire spesso anche nei salotti di Roma: basta seguire e ci si arriva. E invece più si va avanti nelle indagini e più ci si rende conto dell'estrema complessità”. Bisognava vivere la realtà vischiosa, a doppio e triplo fondo della Sicilia di allora, per avere un’idea esatta della sua mafiosità: “Ieri ho avuto una lunga discussione, quasi uno scontro con i colleghi di Milano che si lamentavano perché a Palermo non si potevano fare pedinamenti, non si potevano scoprire cose. Dicevo: c’è una piccolissima differenza. A Milano voi fate i pedinamenti, qui si muore per queste cose. Qui in certe zone gli ufficiali di polizia giudiziaria entrano per pedinare e poi si accorgono di essere pedinati”. Fra una boccata di sigaretta e l’altra, Falcone è costante nell’invitare a non prendere sotto gamba la metodicità, la serietà delinquenziale dei mafiosi. Assassini efferati sì, ma non macchiette sanguinarie. “Non c’è un omicidio sbagliato, finora, in seno a Cosa nostra – spiega in un audio il magistrato - Quando si uccise Dalla Chiesa tutti dissero: è stato fatto un errore storico. Poi hanno ucciso Chinnici e Cassarà e di nuovo tutti hanno detto che fu un altro errore storico. E continuiamo a fare errori storici. Hanno sempre indovinato il momento opportuno, il momento giusto. Hanno colpito al momento giusto. E questo dimostra, a parte la ferocia, un’assoluta conoscenza di notizie di prima mano”. Come la soffiata sul suo tragitto in autostrada da Palermo che in quel maledetto 23 maggio 1992 gli fu fatale.