Dovremmo imparare a razionalizzare il vincolo degli anniversari, cominciando col chiederci perché mai insistiamo a celebrarli, quale che ne sia il contenuto, e continuando con la messa a fuoco della cadenza: 25 anni anziché 30, 40 anziché 50 e così via. Soprattutto, toccherebbe prendere coscienza di come ogni rievocazione storica sia in realtà una necessità del presente, che in assenza di forti chiavi di lettura su se stesso prova a rintracciarle in un passato condiviso, ma a patto di reinterpretarlo esclusivamente per esigenze dettate dall'odiernità. Così è anche per il trentesimo anniversario di Tangentopoli, lo sconvolgente fenomeno di mutamento socio-politico e culturale che si è innescato a partire dall'inchiesta della procura di Milano denominata “Mani pulite”. Perché mai in questi giorni c'è tanta smania di rievocazione? Davvero i tempi sono maturi per storicizzare l'evento? La risposta a quest'ultimo interrogativo necessita di essere brutale: nessun tempo è maturo per storicizzare eventi perché ciascun tempo li storicizza a modo suo.
Sicché, essendo fatica vana cercare un senso oggettivo della Storia che si sottragga ai molteplici sensi soggettivi di chi la interpreta e del momento storico in cui lo fa, meglio guardare a ciò che in questo momento percepiamo di quel fenomeno, e quel che percepiamo è una lunga guerra non ancora finita. Prendendo in prestito il nome conferito a uno dei più grandi eventi della storia europea, potremmo battezzarla la Guerra dei Trent'Anni Dopo. È una guerra che continua a essere combattuta oggi, appunto, sull'interpretazione da dare ai fatti di questi trent'anni.
Anche su questo terreno ci si scontra in modo aspro, senza alcun riguardo per le opinioni moderate o tendenti verso la conciliazione. Perché davvero la conciliazione pare la più remota delle ipotesi, in cima a questo trentennio che ha prodotto innumerevoli fratture e contrapposizioni insanabili, generate da un'esplosione di malanimo che trent'anni fa nessuno si aspettava e che ha ingigantito il ruolo di uno dei tre poteri dello stato, il giudiziario. A esso è toccato il compito di accendere la macchina di un disordinato cambio di regime, dal quale infine lo stesso potere giudiziario è rimasto travolto, perché dapprima ha incontrato un appoggio popolare troppo unanime, per non essere irrazionale, ma subito dopo ha finito per essere travolto da un meccanismo della politicizzazione che a sua volta si è imbarbarito e non ha riconosciuto più a nessuno la dignità di soggetto terzo e men che meno di avversario. Tutti nemici, piuttosto, e da abbattere.
In questa logica dello scontro guerresco sono finiti anche i magistrati, da etichettare come politicizzati, salvo che si facessero politicizzare dalla parte per cui si fa il tifo. La calcistizzazione della magistratura, giunta persino prima che quella della politica. Siamo dunque nel pieno della Guerra dei Trent'Anni Dopo, consapevoli soltanto di due cose: che non è ancora finita, e che siamo molto peggio di trent'anni fa.