Non basta concentrarsi soltanto sui veicoli elettrici per superare indenni l'esame della transizione energetica. Accanto all'adozione di sistemi di trasporto sostenibili, un governo desideroso di abbracciare un futuro green è chiamato a programmare una visione generale a lungo termine. Una visione, sia chiaro, da alimentare con investimenti tanto ingenti quanto costanti nel tempo, e che abbia il fine ultimo di traghettare il proprio Paese verso un futuro sostenibile nella sua interezza. Ebbene, c'è chi, come gran parte dell'Occidente, ha iniziato a muovere i primi passi verso questa direzione soltanto da pochi anni, e chi, come la Cina, ha già raggiunto un livello considerevole, considerando la stazza (circa 1,4 miliardi di abitanti) e la storia (uno sviluppo formidabile concentratosi per lo più negli ultimi 40 anni) del gigante asiatico. Eppure, ascoltando i discorsi di alcuni leader politici occidentali, Pechino sembrerebbe essere una delle cause principali dell'inquinamento mondiale: è davvero così? La situazione, nonché l'intero contesto, è alquanto differente. I numeri parlano e sono chiari, come ci ha raccontato Demostenes Floros, Responsabile Energia CER (Centro Europa Ricerche), intervenuto nel seminario Percorsi di sostenibilità – Energia, ambiente e cooperazione, andato in scena a Roma pochi giorni fa.
La Cina è davvero il Paese più inquinante al mondo come immagina una parte dell'opinione pubblica?
La Cina è il più grande emettitore di CO2 al mondo in termini complessivi. Ma se calcoliamo le emissioni di CO2 a livello pro capite, i dati dell'Energy Institute of Statistical Review 2023 ci dicono che le emissioni totali di CO2 di Stati Uniti, Unione europea, Cina e India sono pari rispettivamente a 15.9, 6.9, 8.3 e 2 tonnellate per abitante. Se ne evince, ad esempio, che gli Stati Uniti emettono quasi il doppio delle emissioni cinesi, a livello pro capite. C'è dell'altro.
Cosa?
Questo ragionamento vale nell'ipotesi in cui le emissioni vengano calcolate sulla produzione e non sul consumo. Perché se calcoliamo le emissioni di CO2, non più sulla produzione, bensì sul consumo, ecco che la situazione sarebbe ancora diversa, nella misura in cui ad oggi la Cina rappresenta il 30,5 % della manifattura a livello mondiale contro il 17,1% degli Stati Uniti e il 6,3% del Giappone. Tanto per avere un'idea, le due principali manifatture dell'Ue, Germania e Italia, esprimono rispettivamente il 4,6% e l'1,7%, mentre l'India è ferma al 2,8%.
Questo cosa significa?
È evidente che chi esprime gran parte della manifattura a livello mondiale emette più CO2, nell'ipotesi in cui quest'ultima venga calcolata in termini di produzione e non di consumo. Le faccio un esempio chiaro: si stima che il 40% delle emissioni cinesi sia ascrivibile a beni e servizi prodotti in Cina, ma che in seguito vengono esportati e consumati dagli Stati Uniti e dall'Europa. Un altro esempio è dato dal caso del Regno Unito, che si è vantato di aver diminuito la sua Carbon Footprint del 15% tra il 1990 e il 2005. Peccato che se la Carbon Footprint fosse stata calcolata, non in termini di produzione, ma di consumo, addirittura il segno sarebbe stato non negativo ma positivo (da -15% a un +19%). E questo perché si sono registrati straordinari spostamenti della manifattura dai Paesi della cosiddetta vecchia industrializzazione ai Paesi in via di sviluppo, di cui la Cina ne rappresenta il cuore. In definitiva, si giungono a conclusioni politiche superficiali - se non errate - quando consideriamo le emissioni di CO2 in base alla produzione e non al consumo, e calcoliamo i livelli complessivi di CO2 dei singoli Stati e non a livello pro capite come sarebbe più corretto.
Perché la Cina è riuscita a diventare più green dell'Europa, e più in generale dell'Occidente?
La Cina è diventata leader nella produzione di energia da rinnovabili perché, nel corso degli ultimi 15 anni, ha investito grandissime quantità di denaro nelle fonti rinnovabili. Questo lo si è visto anche a livello di ricerca, dove ad oggi sappiamo che il 40,5% dei brevetti sulle energie rinnovabili al 2021 (fonte IRENA) sono stati depositati dalla Cina, contro il 16,4% degli Usa e il 9,5% dell'Ue. Analizzando, poi, il paniere energetico cinese nel corso del decennio 2012-2022, vediamo che il peso delle rinnovabili – lo stesso che nel 2012 faticava ad arrivare all'1% dei consumi di energia primaria totale - dopo un decennio e ingenti investimenti, sia arrivato a rappresentare oltre l'8% dei consumi di energia primaria cinese. Consumi, attenzione, che non sono rimasti costanti, ma che al contrario sono aumentati di oltre il 35,7% (ad un ritmo medio del 3% all'anno). Lo straordinario lavoro politico della Cina ha portato le rinnovabili a soddisfare l'8% del paniere cinese, con 318 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (dalle 36 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio del 2012). In Europa stiamo iniziando soltanto adesso a prender confidenza con le auto elettriche.
In Cina sono realtà già da diversi anni. Come procede l'elettrificazione del Paese asiatico?
Nel 2022, sulle strade cinesi circolavano complessivamente circa 319 milioni di veicoli. Oltre un quarto dei veicoli passeggeri venduti in Cina erano veicoli a nuova energia (NEV), un valore comprensivo di veicoli elettrici ed ibridi. I dati ci dicono che, sempre nel 2022, hanno circolato sulle stesse strade cinesi quasi 7 milioni di NEV, ovvero il 26% dei quasi 27 milioni di veicoli venduti in totale. Siamo quindi di fronte ad un incremento eccellente, se pensiamo che nel 2018 questa percentuale era di appena il 5%. Se prendessimo in considerazione soltanto i veicoli elettrici (EV), invece, i dati ufficiali parlano di 13,1 milioni di cinesi proprietari di EV, ovvero il 4,1% del totale dei proprietari di auto.
I veicoli elettrici pongono però un serio problema: lo smaltimento delle loro batterie. Come si comporta la Cina su questo fronte?
La Cina ha una straordinaria industria legata al riciclaggio delle batterie. Accanto a questa industria legale esiste purtroppo anche un'industria nera, un mercato particolarmente florido che causa un grave inquinamento del suolo, dell'acqua e dell'aria. Pechino deve quindi affrontare quanto prima questo aspetto, nella misura in cui il Paese rottama, smantella e ricicla ogni anno complessivamente molti meno veicoli del previsto rispetto a quanto stimato. Nel 2014, il ministero dell'Industria e dell'Information Technology ha emanato politiche per definire un sistema di tracciamento delle batterie, pubblicando tra l'altro un elenco di aziende autorizzate a riciclarle. Nel giugno 2023, la lista comprendeva 88 aziende molto grandi, dotate di 14.500 punti di assistenza sparsi in tutto il Paese. Il problema è che esistono molti riciclatori non ufficiali – nell'ordine di decine di migliaia - disposti a pagare un premio per le batterie dei veicoli elettrici da smaltire. I proprietari dei veicoli vendono spesso le loro batterie a piccole officine perché per loro risulta essere più conveniente. Il punto è che queste aziende smontano manualmente le batterie causando danni ambientali indicibili. In definitiva, la Cina ha un'industria legata al riciclaggio delle batterie nascente, che però deve confrontarsi con un mercato nero molto florido. Il governo sta cercando di affrontare il problema, ma la strada da fare è ancora lunga.
Il tema energetico è, tra le altre cose, connesso alla tecnologia. A suo avviso come terminerà la guerra dei metalli rari in corso tra Cina e Stati Uniti? L'Occidente rischia di ripetere gli stessi errori fatti con le risorse energetiche russe?
L'obiettivo è che non si ripeta l'errore fatto con il gas naturale. Sul tema dei metalli rari, cosa succederà? Abbiamo due strade davanti a noi: 1) possiamo incamminarci verso una situazione di tensione ed escalation che potrebbe culminare anche in un conflitto; 2) oppure possiamo usare le materie prime come elemento di cooperazione e diplomazia del business. Perché da una parte abbiamo Ue e Usa, che necessitano disperatamente di metalli rari e materiali di base per potere avanti le rispettive transizioni energetiche, e che devono importare quel che serve soprattutto dalla Cina. Dall'altro lato abbiamo, appunto, la Cina. Il paniere energetico cinese è ancora condizionato dal peso del carbone, che in termini relativi è calato dal 69 al 55% nel decennio 2012-2022, ma che in termini assoluti è aumentato del 9,8%. Si tratta di un aumento infinitamente inferiore rispetto agli incrementi del consumo di gas naturale (+200%) e delle rinnovabili (+800% circa). È chiaro però che un paniere energetico come quello cinese necessita di un costo per la transizione energetica nettamente superiore rispetto a quello delle principali economie occidentali. Esiste, tuttavia, una base materiale per poter implementare una politica di diplomazia del business che prevalga su oggettive situazioni di conflittualità.