Ieri scrivevamo che male, malissimo ha fatto Beppe Grillo ad aver attaccato ad alzo zero la senatrice leghista Giulia Bongiorno a Che tempo che fa, mescolando l’amarezza paterna per il figlio Ciro, imputato insieme ad altri tre ragazzi per il presunto stupro della studentessa italo-norvegese nel 2019, con il ruolo, defilato ma non assente, di fondatore e “garante” del Movimento 5 Stelle. Confondendo i piani, pubblico e privato, si è esposto alla contro-accusa della Bongiorno che come avvocatessa rappresenta la parte offesa, la quale ha avuto buon gioco a chiedersi se Grillo voglia “intimire” la difesa, provando “a mettere pressione al tribunale”. E tra l’altro, aggiungiamo, danneggiando sé stesso e il figlio: lui, perché così palesa nel peggiore dei modi il condizionamento, affettivo e mentale, che la vicenda giudiziaria ha avuto su di lui e presumibilmente sulle sue scelte; e di certo non giova nemmeno a Ciro Grillo, che vede legato il suo nome alle pubbliche uscite del papà, che domenica sera gigioneggiava nello studio di Fabio Fazio in qualità di uomo politico, non come ospite di una trasmissione dedicata ai processi eccellenti. C’è chi dice che Grillo prima fa, e poi pensa. Altri ipotizzano invece che l’abbia pensata anche troppo, questa intemerata sui “comizietti davanti ai tribunali” della Bongiorno, ossia che abbia voluto lanciare un cripto-messaggio, della serie: attenti, perché potrei tornare a fare casino in politica, se la vita di mio figlio venisse rovinata. Minaccia, quand’anche vera, con la pistola scarica, poiché ormai il M5S dipende elettoralmente da Giuseppe Conte (nonché dall’autolesionismo del Pd), e non dalla presa sull’opinione pubblica, totalmente desertificata, del canuto ex tribuno.
Ma sia pur sbagliando, Grillo ha messo in evidenza un problema di merito non da poco: la discutibile facoltà che un rappresentante delle istituzioni in carica, in questo caso un membro del Senato della Repubblica, e per di più presidente della Commissione Giustizia, indossi la sua toga di penalista in una storia processuale in pieno svolgimento. Chiariamo a scanso di equivoci: non si discute qui la legittimità, ma l’opportunità della doppia presenza. Ci aveva provato con una proposta di legge nel 2011 l’ex giudice Antonio Di Pietro, a rendere incompatibile l’elezione parlamentare con l’esercizio delle professioni intellettuali (fra cui quella di avvocato). Naturalmente non se ne fece nulla, dal momento che avrebbe voluto dire svuotare l’intero parlamento, pieno zeppo di titolari di studi legali. Il principio, tuttavia, non è peregrino. Ha scritto su quotidiano Domani il professor Gianfranco Pellegrino, che si occupa di etica e filosofia politica: “Può una persona con un profilo professionale di questo tipo”, ovvero un’appartenente all’attuale maggioranza, impegnata a favore delle donne e famosissima professionista forense, “tenere le propria mente e la propria azione sgombra dall’influsso degli altri interessi che rappresenta nella sua attività politica, e guardare con la sua azione all’interesse non solo del suo cliente ma anche della società in generale?” (“Avvocata e senatrice: il conflitto di interessi di Giulia Bongiorno”, 8 novembre 2011). Traduzione: ma è proprio indispensabile che la Bongiorno, impegnatissima in politica, con tutta la stima per la brillantezza in aula e le capacità di sgobbona che le vengono attribuite fin dai tempi del processo Andreotti, debba lavorare ad un caso in cui è coinvolto un parente diretto, anzi addirittura il figlio di Beppe Grillo, che resta nonostante tutto un personaggio politico?
Domanda, questa, da girare non tanto alla famiglia della giovane che accusa Ciro Grillo e i suoi amici di aver commesso uno degli atti più ignobili in assoluto, ma alla Bongiorno stessa. Avvertire cosa è opportuno distinguendolo da cosa non lo è dovrebbe essere parte integrante della dotazione civica e del senso di convenienza politica di chi poi, per dovere professionale, come avvocato non può che avere come unico orientamento i codici e le leggi. Non dubitiamo minimamente della ligia devozione della Bongiorno ai dettami deontologici, ci mancherebbe. Però, onde evitare di finire impelagata in polemiche come quella suscitata dalla sparata grillesca dell’altro giorno, forse era meglio non accettare a priori il mandato, in questo specifico affaire. Perciò, l’ulteriore domanda è: perché Giulia Bongiorno, che ha un curriculum politico di tutto rispetto nel campo del centrodestra (prima Alleanza Nazionale, oggi Lega), e con una posizione nel sistema istituzionale che, se non è come essere ministro della Giustizia, è comunque più che invidiabile, non ha pensato di astenersi dall’associare il suo volto e la sua voce a un’odissea giudiziaria che l’avrebbe messa a contraltare dei Grillo? Può la sola ragione lavorativa, e cioè non negarsi a una cliente, rendere meno opinabile una scelta foriera di commistioni, ancorché subìte, come quella a cui abbiamo assistito in queste ore? Insomma, era proprio obbligatorio dire di sì proprio a quella cliente, commendevolissima senatrice e avvocatessa Bongiorno?