Sono stati talmente colti di sorpresa, a Mediaset, dalla ferale notizia della morte di Silvio Berlusconi, che mentre su Canale 5, in alto a sinistra nello schermo, si leggeva correttamente “Speciale Tg5”, su Rete4, dove è andata in onda in simulcast la stessa identica trasmissione, condotta da una affranta Cesara Buonamici, era ancora in sovrimpressione il titolo della serie normalmente in palinsesto, “Carabinieri”. E in effetti, anche se l’ex Presidente del Consiglio e fondatore di Forza Italia stava malissimo da tempo, e nonostante fosse da poco uscito da un ricovero che aveva messo tutti in allarme, il lancio d’agenzia con la sua dipartita non se lo aspettava davvero nessuno. Un’aura di immortalità, il vecchio Silvio, ce l’aveva. Negli studi e nei corridoi della sua azienda prediletta, a prendere il suo posto era stato già da anni il figlio Piersilvio. Ma c’è da poco da girarci intorno: l’anima del padre aleggia a Cologno Monzese, che è la sua creatura, la vera eredità che lascia all’Italia. Nel bene e nel male.
Stamattina, in ogni caso, alle 10:40 la programmazione delle reti del Biscione è cambiata. Non di tutte: mentre sul 4 e sul 5 (e su Tgcom24) scorrevano le immagini e le parole dello speciale, su Italia 1 non si schiodava “CSI New York”, seguito da “Una mamma per amica”. L’effetto di macabra ironia non era il massimo, ma tant’è: si recupera stasera, con il documentario di Toni Capuozzo “Caro presidente… ti saluto”, che sarà visibile a reti unificate. Intervallati da pochissimi break pubblicitari, preannunciati da una foto di Berlusconi sorridente, le date di nascita e morte (1936-2023) e un jingle sentimentale, gli spezzoni sulla vita del patron si sono succeduti per quasi tre ore, con la conduzione minimal della Buonamici, in pratica addetta alla lettura dei messaggi di cordoglio dal mondo politico (Matteo Renzi: “Mi ha fatto scendere una lacrima parlando di sua mamma”). La video-biografia inizia dalla fine, dal filmato del leader di Forza Italia per la convention del suo partito lo scorso 5-6 maggio. Un Berlusconi provato dalla malattia, biascicante e con lo sguardo sofferente, tentava di galvanizzare per un’ultima volta le masse astensioniste, invitandole a votare alle amministrative che si sarebbero consumate di lì a qualche settimana. Dopodiché, il primo capitolo sunteggiava la carriera politica dell’illustre defunto: “dopo Mani Pulite”, recitava il pezzo usando il presente storico, “c’è bisogno di un pensiero più pragmatico e meno ideologico”, ed ecco l’invenzione del partito azzurro, con il famoso annuncio “L’Italia è il Paese che amo” e la sottolineatura dei quattro cavalli di battaglia storici: 1 milione di posti di lavoro, l’abolizione dell’Ici sulla prima casa, l’abbassamento delle tasse, la “lotta alle rendite di posizione” (sic). Si prosegue magnificando la “mossa vincente” di “sdoganare” sia i tardo-fascisti (chiamati pudicamente “post-missini”) sia i “leghisti della prima ora”. 3292 giorni di governo in totale, quelli di Berlusconi, in quattro differenti governi, ricordando il “patto della crostata” con D’Alema (noto anche come inciucio), la condanna giudiziaria per i diritti Mediaset e la conseguente decadenza da senatore, e soprattutto il suo lascito politico “principale”, ossia il “bipolarismo” (incontestabilmente vero, anche se agitando lo spauracchio dei “comunisti”, elemento di propaganda curiosamente qui non evidenziato).
Si collega Roberto Duval dall’ospedale San Raffaele di Milano, dove il Nostro è deceduto. Ha quasi la voce tremante nel testimoniare il “momento di generale sofferenza” che si respira lì attorno. Nell’arco di un’ora o poco più cominceranno ad affluire persone comuni, come avviene di regola quando muore un personaggio famoso. Parte il secondo servizio, dedicato alla vita familiare, in cui risalta la figura della madre, la signora Rosa, con passaggi d’archivio in cui confessava di recitare “tre rosari al giorno” per il figlio, a cui mandava “tanti, tanti baci per telefono”. “Chi te l’ha fatto fare?”, gli ripeteva sempre, portando veracemente acqua al mulino della tesi, sistematicamente ripetuta da Berlusconi e dal suo entourage, di essere stato quasi costretto alla famosa “discesa in campo”, nel 1994. Perché “lui ama l’Italia e gli italiani, e invece di essere apprezzato, è stato malmenato da tutti”, si spazientiva mamma Rosa. Cuore di mamma. Dopo un’interruzione con i telegrammi di pianto (l’ex delfino Giovanni Toti, quello che Berlusconi voleva far dimagrire, scrive: “Da lassù starà continuando il suo lavoro”), la seconda parte sulla famiglia si concentra sulla fidanzata Marta Fascina (sposata – ma questo il Tg5 non lo dice - solo simbolicamente, per evitare grane sulla successione), sui cinque figli a partire da Marina (quella che forse assomiglia più al genitore), al fratello Paolo e alle diverse mogli che ha avuto. Si passa poi al racconto del Berlusconi imprenditore, che comincia con un affare edilizio a Brugherio a metà anni ’60, e finisce con il costruire “città in miniatura”, dove “tutto era già previsto per il benessere degli abitanti”: Milano 2, anno 1971. Grazie a Publitalia prima, e al sodalizio con Ennio Doris poi, anche nella finanza il nostro eroe sbanca. Non pago, nel 1988 si butta sulla grande distribuzione con la Standa. Con l’impegno politico, tuttavia, si determina “l’uscita dalle aziende” (cosa, questa, leggermente fantasiosa, visto che il blind trust non gli alienò certo l’impero che restava di fatto saldamente nelle sue mani, con un conflitto d’interessi senza precedenti nell’amato Occidente liberal-democratico).
I giornalisti di casa indugiano poi sul Berlusconi perfino filosofo, che “da studente scoprì un libro” che lo segnò per sempre: l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. La follia in questione, naturalmente, non è psichiatrica ma sinonimo di “lucida follia”, ovvero, più terra terra, di creatività imprenditoriale, che indubbiamente non gli mancava assieme alla spregiudicatezza (per esempio, non si fa alcuna menzione della “guerra di Segrate” contro Carlo De Benedetti per il controllo della Mondadori, neppure citata, forse per gli strascichi in tribunale che si portò dietro per oltre vent’anni, dando alla fine ragione al rivale di sempre). Sia come sia, egli fu un “visionario” per cui “l’impossibile si trasforma in possibile”. La sua maggiore “virtù” era quella del “condottiero”, che sa “far intravedere agli altri le opportunità”. Un “genio visionario” che seppe salvare il Milan dal fallimento, e che era animato dal “sentimento più nobile del genere umano”: l’amicizia. Concluso questo imparziale ritratto, si collega da Montecitorio l’inviato Matteo Berti il quale, vedi mai qualcuno se lo fosse dimenticato, rimembra che Lui “ha cambiato la politica e l’Italia”. Quanto, come, a favore di chi, meglio soprassedere. È infatti venuto il momento, forse, clou: la ricostruzione dei fasti della tv privata, dallo scantinato di TeleMilano58, anno 1978, segnando subito il colpaccio con Mike Buongiorno direttore artistico, fino alla progressiva espansione di quella che al tempo si chiamava Fininvest, il tutto con abbondanza d’immagine di repertorio con Massimo Boldi, Claudio Lippi, Cecchetto, Marco Columbro. L’intuizione degli esordi, effettivamente geniale, fu quella di aggirare il divieto di concorrenza al monopolio della Rai trasmettendo in contemporanea su quindici emittenti locali, da cui poi sorgeranno, pezzo dopo pezzo, le tre reti del Biscione. Un trionfo a tappe, grazie alla campagna acquisti di prodotti internazionali (“Dallas”) e celebrità scippate alla tv di Stato (Sandra e Raimondo, Costanzo, Pippo Baudo, Raffaella Carrà). Non viene omesso l’aiutino di Bettino Craxi capo del governo che fece riaccendere con apposito decreto ad aziendam i canali spenti dai pretori nel 1984, né viene obliata la legge Mammì del 1991, un regalone della Prima Repubblica alla vigilia della fine, grazie a cui si aprì la stagione dei telegiornali, con Emilio Fede ed Enrico Mentana. Naturalmente, il ruolo assistenziale della politica, e specialmente dei socialisti, viene dato come pura cronaca.
È la volta del Berlusconi sportivo, anzi, accumulatore seriale di vittorie con il Milan di Arrigo Sacchi, Fabio Capello e Carlo Ancelotti (“29 trofei in 31 anni”), e qui si butta lì una frasetta in cui si trova invece una delle chiavi fondamentali per comprendere la personalità del trapassato: “l’ottimismo base di tutto”. Assolutamente vero, come non solo ha dimostrato il Monza, da lui riesumato dopo aver venduto il Milan, ma l’intera sua parabola umana e politica. La ritrattistica ufficiale lo afferma in modo ottusamente elogiativo, com’è normale che sia, ma il suo vitalismo naturale, il fatto di credere indefessamente alla propria stella, di non dubitare mai delle proprie fortune, di rilanciare in continuazione, senza sosta, era la sua cifra più profonda, che spiegava il suo esibizionismo (“se avesse una punta di tette”, diceva Indro Montanelli che lo ebbe come editore del Giornale, “farebbe pure l’annunciatrice”), la sua allegria adolescenziale (la manìa delle barzellette viene da qui), il suo egotismo ma anche la sua abitudine a elargire attenzioni e la sua generosità, sia pur quella generosità tipica del ricco sfondato che fa del bene per illuminare e far fiorire il cammino su cui posa il piede. Ovviamente, nessuna di queste riflessioni può trovar spazio nel tono agiografico e patinato della bio ufficiale by Mediaset. Piuttosto, si concede una carrellata agli amici di una vita, il Fedele Confalonieri, l’Adriano Galliani, il Gianni Letta. Chissà perché neppure una parolina per il Marcello Dell’Utri, che fu la mente di Publitalia, nonché l’esecutive di Forza Italia. Forse perché le storiacce processuali legate alla mafia non stanno bene nel quadretto, con quel Vittorio Mangano stalliere ad Arcore, la villa del principe, fino al 1975. A proposito: Andrea Pamparana approfitta del necrologio per dare la versione più berlusconiana che si può delle vicende giudiziarie del Cavaliere: “uso politico della giustizia”, “vera persecuzione”, senza mai citare le leggi ad personam con cui i suoi governi inzepparono il codice e gli facilitarono la vita davanti ai giudici.
Si va verso la conclusione con un collage di “scene madri” di Silvio il mattatore: “il nuovo miracolo italiano”, la sfuriata dal palco contro Gianfranco Fini, la mossa di pulire la sedia su cui era seduto Marco Travaglio da Santoro, le foto assieme ai leader della Terra, da Chirac a papa Woityla, fino a Bush e a Putin (rimarcando il suo “atlantismo” di fondo che non gli impediva di sognare “un asse privilegiato con la Russia”, restando in ultimo “deluso” dall’invasione dell’Ucraina, sorvolando bellamente sulle recenti analisi, di controcanto totale rispetto alla narrazione dell’attuale governo Meloni, proprio sull’invasione, che in sostanza Berlusconi giustificava). Cosa volete, non si può pretendere che nel gruppo televisivo di famiglia, accennando per esempio ai buoni rapporti con Gheddafi (fino all’indecoroso bacio dell’anello del raìs), si ricordi pure il voltafaccia completo con cui nel 2011 l’allora premier Berlusconi contribuì sua quota parte alla defenestrazione a mezzo bombe, con aerei che decollavano pure dal nostro Paese. Il Silvio nazionale dai mille volti, in doppiopetto obbligato, in tuta, con la bandana, che fa le corna agli incontri ufficiali, che dà del kapò a un esponente politico tedesco, che si fa amare dall’italiano medio per l’incoercibile passione che accomuna tutti gli eterosessuali, questo Berlusconi corruttore, apostolo del privato da preferire al pubblico, importatore dell’american way of life, con patetiche e divertenti manie di grandezza (il mausoleo in casa, il vulcano in una delle tante residenze in Sardegna), questo arcitaliano collazionatore di gaffes, che tali non erano per il suo target di centrodestra (le sparate su Mussolini e sul regime fascista che in fondo mandava soltanto qualcuno al confino), quest’uomo immune all’autocritica, che fece cacciare dalla Rai persino Enzo Biagi e che era l'incarnazione autentica dell’Italia da commedia vanziniana (e non monicelliana), un'Italia spudorata in cui ci si arrangia sempre e non ci si dà mai un limite, era, come lo ha definito oggi Vittorio Sgarbi - ma su La7 - un “eterno bambino, innocente e generoso”. Innocente, non ne saremmo sicuri. Sul generoso, si è detto. Puer aeternus, senz’altro. Ma anche questo, i coccodrilli di Mediaset non possono dirlo.