Bei tempi quelli dell’editto bulgaro, quando Silvio Berlusconi in veste di Presidente del Consiglio faceva cacciare dalla tv pubblica Michele Santoro, Daniele Luttazzi ed Enzo Biagi. Da buon capo-azienda, abituato a comandare e non essere sbugiardato - in ogni imprenditore, anche se illuminato, cova più o meno consciamente un dittatore - non ci trovava nulla di strano a definire il loro lavoro, giornalistico o satirico, “criminoso”. Tuttavia, l’allora Cavalier trionfante aveva una sua onestà nell’esibire la propria intolleranza: sfacciata, spudorata, insultante, ma almeno alla luce del sole, rendendo a tutti visibile l’idiosincrasia, illiberale al cubo, nei confronti del dissenso. Perché Berlusconi, nell’intimo rimasto un sciur padrùn, non è mai stato un politico nel senso psicologico del termine: gliene manca la forma mentis, il dire una cosa per intenderne un’altra, quel modo di fare e pensare, simulatorio e dissimulatorio, pieno di accortezze felpate e astuzie verbali.
Giorgia Meloni, invece, è nata nella politica, ha vissuto di politica e, a naso, non saprebbe fare altro che la politica. Può contestare di brutto, come ha già fatto, un giornalista, una testata o una trasmissione che non le vada a genio perché “faziosa”, si pensi soltanto a Piazza Pulita di Corrado Formigli, in cui non mette piede da anni. Ma non se ne uscirebbe mai in conferenza stampa per far partire, di fatto, una lettera di licenziamento per chicchessia (anche perché le ha abolite, le conferenza stampa). Oggi, poi, che la prudenza “istituzionale” connessa al ruolo di premier le mette il sacro terrore di commettere passi falsi, se ne sta fuori in maniera strategica e sistematica dalla polemica quotidiana. Ha capito, infatti, che il consenso (nel suo caso ancora alto, a distanza di oltre sei mesi dall’insediamento) si conserva apparendo superiore allo scontro di giornata. Ma è ovvio, è stra-ovvio che le sue idee e i suoi progetti li ha, anche riguardo gli organi che quel consenso veicolano, prima fra tutti la Rai che per statuto è in mano al governo di turno.
Si spera non sia sua l’idea, riportata come voce dal Corriere della Sera, di un prossimo sbaraccamento di Report, il programma che dal 1997 è fra i pochi a praticare il giornalismo d’inchiesta. Con Milena Gabanelli prima e Sigfrido Ranucci poi, Report ha avuto sempre una linea di sinistra (legalitaria, ambientalista, antifascista, ecc) che non è mai piaciuta, né poteva piacere, alle destre varie in questi quasi trent’anni di onorato servizio. Adempiuto, per giunta, con due particolarità insidiose: ha saputo realizzare, sul piano tecnico, inchieste nel significato più pregnante del termine, producendo cioè notizie, offrendo inediti, firmando scoop, e risultando quindi a maggior ragione scomoda in quanto, così facendo, ha inciso nella carne viva, non limitandosi a confezionare il reportage pronto uso, magari rimasticando cose altrui; secondo, ha orientato il mirino pure contro bersagli che, nel panorama politico del momento, sono collocati anche da quella parte che idealmente è la loro, ma che, per legittime valutazioni giornalistiche e in senso lato politiche (il giornalista “obiettivo” non può esistere, esiste il giornalista onesto, semmai), sono state rese oggetto di attenzioni esattamente come per tutti gli altri. Un conto, infatti, è essere parziali a prescindere, un altro è avere un proprio pensiero. Il pregio di Report è aver scandagliato, indagato e sbertucciato a destra ma anche a sinistra, oggettivamente.
Certo, con eccezioni (siamo sicuri, per esempio, che nel 2020 un controllino, oltre che alla Cisl, non si potesse fare anche a Cgil e Uil?). Epperò da chi, e da qual pulpito può venire mai la predica su una impossibile equanimità totale nel far le pulci in ogni direzione? Quanti, per dire, sono i valorosi kamikaze nei giornali, siti e tv di destra che si curano delle magagne e degli obbrobri dei partiti e politici di destra? Idem a sinistra, al centro, per chi simpatizza per il M5S, per chi è pagato da Confindustria o dalla Chiesa. Se un difetto ce l’ha, Report, e lo diciamo con tutto il rispetto per chi si smazza settimane e mesi di approfondimenti, appostamenti e incrociamenti di dati, fonti e visure, il tutto accumulando querele su querele e magari finendo pure accusati di giocare sporco, è un difetto comune alla stragrandissima maggioranza della categoria: il soggiacere a quel punto di vista corrente, ma limitante, per cui in fin dei conti viviamo, parafrasando Voltaire, nel “miglior dei peggiori mondi possibili”, il che non permette di andar ancora oltre nell’azzannare i poteri ultra-forti che non sono politici, non sono meramente industriali, sono finanziari, geomilitari, sovranazionali, e dunque molto difficili anche soltanto da individuare e nominare. Report ha fatto molto, su questo fronte (ottimi, anzi indispensabili i servizi sulla speculazione bancaria o sul folle mercato europeo del gas o sulla gestione della pandemia, per citarne solo alcuni), e tuttavia, con la bravura assoluta dimostrata negli anni, potrebbe far salire ancor di più l’asticella.
Ma ciò detto, è già tanto, tantissimo quel che ha prodotto finora. Nella tv di Stato lottizzata per norma e regola, in cui qualità e preparazione professionale vengono troppo spesso dopo l’appartenenza non solo di partito, ma anche a questa o quella lobby di capibanda, qualcuno che fa del giornalismo investigativo, nonostante tutto, c’è. Non è poco. Assieme a Presa diretta di Riccardo Iacona e ai magistrali racconti di vita di Domenico Iannacone (tutti su Rai 3, fra parentesi), Report mostra agli italiani, almeno a quelli un minimo curiosi e dotati di senso civico, che l’informazione è tale solo se svela i nessi, i fattacci e le profondità nascoste acquattate sotto il flusso delle news e dei talk. Insomma, alzi la mano chi, anche votasse Fratelli d’Italia o Lega o Forza Italia, non ha mai trovato un servizio interessante in Report. La Meloni, che non sarà un’amante della libertà di stampa ma ingenua non è, dovrebbe tenersela stretta, una spina nel fianco così. Ma forse sono i gerarchi e gerarchetti, assetati di vendetta e smaniosi di “ripulire gli angolini”, a spingerla all’autogol. Perché di autogol si tratterebbe. Politico, se vogliamo lasciar stare l’etica del merito e il bene dell’azienda Rai. La Meloni continui pure, sbagliando, a non confrontarsi con i giornalisti, ma non scada ai livelli miserevoli di berlusconiana memoria. Non faccia diventare dei facili martiri Ranucci & C: farebbe un regalo all’opposizione (e alla concorrenza, benché immaginare certe inchieste altrove, con i costi e le rogne che si portano appresso, non sia automatico). Lei questo può capirlo. Il difficile è forse farlo capire e digerire alla panzerdivision di saccheggiatori che non vedono l’ora di far tabula rasa. Ma che allora, quanto meno, ci mettano la faccia, alla Silvio, anziché nascondersi dietro lo “spoil system” e altri barbari e paraculeschi anglismi. Vogliamo la bieca censura, vogliamo i colonnelli!