Tutti noi vogliamo sentirci dalla parte dei giusti. Chi dice di no è perché crede che non essere etichettato come dalla parte dei giusti sia giusto, e quindi entra a far parte dei “veri giusti”. Una particolare categoria dei giusti, per alcuni, è il team degli intelligenti. Facciamo due esempi reali.
Enrico Bucci
Enrico Bucci è docente di biologia alla Temple University e scrive per Il Foglio. Tra i tanti meriti quello di aver lavorato in modo molto puntuale durante la Pandemia per parafrase gli studi scientifici complicatissimi che uscivano ogni tre giorni (una produzione scientifica mai vista nella storia!). Togliamo ogni dubbio. Bucci è tra i miei preferiti di Facebook, perché mi piace quello che scrive ed è bravissimo. Ma anche i migliori possono avere atteggiamenti tribali. Ieri Bucci condivide lo screen di un anonimo che su Twitter ha scritto: “Enrico Bucci è l'esperto di Covid de Il Foglio. è una persona preparata, competente e scrive bene. Cita soltanto gli studi che sostengono la sua tesi e ignora sistematicamente gli studi contrari. Questa cosa si chiama "narrazione" e apprenderne le chiavi di lettura è vitale”.
Sarebbe stato bello capire quali studi contrari non vengono citati, anche se effettivamente Bucci, con estrema precisione balistica, ha diffuso e scritto non solo di studi, ma anche degli annunci di studi (di dichiarazioni) che potessero confermare le sue tesi (un comportamento sensazionalistico poco ragionevole per una persona che fa divulgazione e che potrebbe aspettare la pubblicazione definitiva). Insomma, i suoi fan hanno iniziato, come quasi sempre sotto i suoi post, a dare degli ignoranti e degli analfabeti scientifici ai tanti no vax, no green pass e no mask che vorrebbero parlare di scienza: “Loro!? Di scienza con noi"?. Questo atteggiamento di solito viene riprodotto da due tipi di persone: (a) Altri scienziati che seguono Bucci e si sentono integrati in una tribù di persone molto intelligenti e preparate che parlano di “fatti” e hanno l’autorità di bocciare chiunque non la pensi come loro (per questo possiamo chiamarli i “professori”). E (b) ignoranti laureati (magari in materie umanistiche) che vorrebbero far parte di quella tribù, non importa in che ruolo e con quanto riconoscimento da parte dei professori, purché da fuori gli altri li vedano “compagni d’armi” di Enrico Bucci & Co.
L’editore di poesia o il poeta
Sono due esempi che per comodità uniremo. Ho letto molti post di un paio di editori di poesia abbastanza importanti nell’ambiente che si prendono gioco di anonimi, evidentemente alle prime armi, che chiedono di pubblicare la loro raccolta. Lo fanno in modi fantasiosi (come si immaginano lo abbiano fatto Allen Ginsberg e qualche altro eroe Beat) ma non c’è nulla di male. Gli editori pensano che cancellando il nome potranno liberamente ridicolizzarli. E in effetti è così (vedete l’altro pezzo sulla libertà di insultare), ma cosa ci dice questo di loro? Che bisogno appagano? Lo stesso vale per la Poetessa che scrive in un post: “Io non me la tiro mai, ma…” (che in altre occasioni i suoi compagni di sinistra avrebbero ascritto alle frasi che ti rendono colpevole; per es. “non sono razzista, ma…”). E continua: “…magari prima di chiedermi qualcosa informati su chi sono e cosa ho fatto e dove sono arrivata” (sto parafrasando per evitare di trovarmi una legione di sue groupie sotto casa). Anche in questo caso sono scettico sul senso del post. La prima cosa che mi viene in mente è che volesse qualche conferma. Sì, anche i più famosi vogliono conferma, così come i re amano essere acclamati.
In entrambi i casi, la gente sotto non ha perso tempo e ha cercato in ogni modo di apparire come del settore. Si va da chi ha fatto ironia sul malcapitato anonimo che non si aspettava questa shitstorm, a chi parla della sua pluriennale esperienza di poeta e autore consolidato, forte dei propri 3 lettori fissi (su Facebook, perché di libri di poesia venduti neanche l’ombra). C’è anche chi è effettivamente nella gilda dei poeti “professori” e che commenta per dar man forte: “Anche a me è capitato, assurdo”.
Conclusione
Una cosa accomuna gli esempi che abbiamo fatto: la gente vuole sentirsi parte del gruppo degli intelligenti. Difficile che vogliamo apparire come la pecora nera, a meno che non siano la pecora nera in un gregge di pecore nere (che a questo punto difficile saranno davvero tali; magari sono solo all’ombra). Dei giusti, ovviamente, ma in particolare degli intelligenti. Dei navigati, di quelli che hanno ragione, di quelli che davvero (lo giurano) non potrebbero mai essere come loro, i cattivi, gli ignoranti, gli stupidi, i novellini. Magari non hanno niente da vendere in più a loro, ma non conta. L’importante è dichiararsi schierati con i buoni, anche con qualche sviolinata. I sentimenti tribali sono un problema per la società. Ne aveva già scritto ampiamente Jonah Golberg in Miracolo e Suicidio dell’Occidente (Liberilibri 2019). Ma si può anche tornare più indietro (per esempio agli economisti di scuola austriaca) per trovare delle argomentazioni forti contro le forme, piccole o grandi che siano, di collettivismo.
A queste aggiungerei proprio quella che emerge da questi esempi. A volte il collettivismo non è altro che lo “spirito del gregge”. Non importa che vi siano interessi comuni o meno (gli interessi di Enrico Bucci e dei suoi lettori sono diversi; persino gli interessi dei suoi lettori sono diversi l’uno dall’altro; idem nel caso della Poetessa o dell’editore e dei vari poeti arrivisti). Quello che conta è che la tribù sia riconoscibile. Un vaccino, la circoncisione, una tessera di Partito, un like dell’autore del post al tuo commento, una foto per dimostrare che sei amico di x, ecc. (alcune di queste cose, il vaccino e qualche foto, le ho anche io; nessuno è sempre immune, e non è la foto in sé o la scelta di vaccinarsi a essere un problema; sono una tribù anche i no vax). Ovviamente nella speranza che dalla propria appartenenza a una tribù si possa trarre un profitto (riconoscimento, pubblicazioni, possibilità, simpatia, amicizia). Questo perché il tribalismo è intrinsecamente contraddittorio. Il gruppo esiste, infatti, per gli interessi individuali di chi quel gruppo lo compone e riconosce vantaggioso far parte di una tribù piuttosto che di un’altra. Così i socialisti, per esempio, nutriranno la speranza di poter raggiungere, almeno rispetto al gruppo, il proprio fine. Altro che bene comune! Questa è la base dell’azione umana (si agisce per uno scopo, in modo da migliorare il mio stato attuale nel futuro). L’intellettuale socialista, per esempio, vuole il riconoscimento che il mondo non gli dà (e che lo fa soffrire di invidia sociale, come scrisse Nozick).
Difficile non giudicare questo modo di ragionare come “infantile”. I bambini agiscono spesso in modo capriccioso, che non vuol dire in modo irrazionale, ma impuntandosi anche contro ogni evidenza. Ai bambini non importa la “ragione”, ma solo “avere ragione”. I collettivisti (professori e adepti della tribù) non vogliono capire chi abbia ragione, vogliono averla per forza. Fanno i capricci. E quando trovano qualcuno come loro e non si sentono in pericolo, alternano ai capricci una fase di “consolidamento” del gruppo, in cui si dà contro e si stigmatizza chiunque non si muova nel mondo come si muovono loro. Chiunque non giochi al loro stesso gioco.