“La società ha un problema di fiducia. Una maggior censura non farà altro che peggiorare questo problema”. A dirlo sono Hamish McKenzie, Chris Best, e Jairaj Sethi, i fondatori di Substack una piattaforma di newsletter nata nel 2017, esplosa negli ultimi anni, che in questo periodo sta sempre di più attraendo grandi firme del giornalismo. L’ultima? Lee Fang, ex reporter di inchiesta di The Intercept. Ripercorrere l’intera storia di Substack, che per quanto breve è particolarmente articolata, non è quello che ci preme fare. La domanda che dovremmo porci, piuttosto, è quale vuoto vada a riempire questa novità “editoriale”, resa famosa da autori indipendenti e giornalisti professionisti che hanno iniziato a preferire piattaforme del genere a testate del livello del New York Times. A questo proposito potremmo partire proprio dalle parole dei fondatori. Il problema della fiducia verso le fonti e gli autori è pervasivo. Sempre di più il giornalismo istituzionale ha preferito virare verso i più comodi agi dati dal fare giornalismo di partito. Il New York Times, per esempio, ha avviato una vera e propria campagna di sensibilizzazione in odore woke e apertamente Dem con il 1619 Project, il progetto giornalistico legato alla cosiddetta Critical Race Theory, un particolare modo di trattare il problema del razzismo e della schiavitù in voga tra i Social Justice Warriors e che tende a essere a sua volta razzista e fortemente basato sulla differenza del colore della pelle (anche se non sempre è così; alcune volte - peggio - la smania woke si applica persino a donne di colore attiviste per i diritti degli afroamericani, come successo a Tabia Lee, accusata di parlare ai neri in modo troppo da bianchi…). Ma se il giornalismo mainstream si divide tra politica e ideologia (per semplificare, tra politici e mode poco razionali), come può un lettore fidarsi ancora delle testate più autorevoli?
Prendiamo un esempio. Glenn Greenwald, co-fondatore di The Intercept e premio Pulitzer nel 2014 insieme a Laura Poitras e Ewen MacAskill (The Guardian) e Bart Gellman (The Washington Post) per il loro lavoro sui documenti diffusi da Edward Snowden relativi alle attività dell’NSA, si è dimesso dal giornale da lui stesso creato per via della censura di un suo articolo sulla vicenda di Hunter Biden. Il figlio di Joe Biden è accusato (e sotto indagine dell’FBI dal 2018) di aver chiesto al padre, ai tempi della sua vicepresidenza sotto Obama, di intraprendere - scrive Greenwald - azioni “vantaggiose per la società energetica ucraina Burisma, nel cui consiglio di amministrazione Hunter sedeva per un pagamento mensile di 50mila dollari”. Tuttavia, nonostante il lavoro meritorio del New York Post, c’è chi ha bollato la notizia come disinformazione russa (per esempio il New York Times) nonostante le innumerevoli prove e la ricostruzione e verifica operata da autori tanto scrupolosi e autorevoli come Greenwald. All’interno dell’operazione di insabbiamento - onde evitare che Biden dovesse trovarsi a rispondere in piena campagna per le presidenziali nel 2020 a delle domande sulla questione - si inseriva anche l’ostruzionismo ai danni dell’articolo di Greenwald. È lui stesso a spiegarlo: “L'ultima ragione, che mi ha fatto infine decidere, è che i redattori di The Intercept, in violazione del mio diritto contrattuale alla libertà editoriale, hanno censurato un articolo che ho scritto questa settimana, rifiutando di pubblicarlo a meno che non avessi eliminato tutte le sezioni critiche del candidato democratico alla presidenza Joe Biden, sostenuto con veemenza da tutti i redattori newyorkesi di Intercept, coinvolti in questo sforzo di censura”.
La vicenda si lega anche al lavoro portato avanti dal giornalista Matt Taibbi, columnist di Rolling Stone e vincitore, tra gli altri premi, del National Magazine Award, intorno ai cosiddetti Twitter Files, una serie di documenti resi pubblici con il cambio di guardia alla guida di Twitter e l’arrivo di Elon Musk. A colpire della vicenda è principalmente il fatto che l’introduzione nel social della moderazione dei contenuti (per evitare frodi e spam) divenne presto un metodo di censura utilizzato direttamente da agenti esterni a Twitter, tra cui nel 2020 (proprio durante le presidenziali) dal Team di Joe Biden e dal Comitato Nazionale Democratico (DNC). A finire sotto la morsa delle azioni “anti-disinformazione” furono anche i cosiddetti Hunter Files, ovvero quei documenti raccolti e inizialmente pubblicati dall’articolo del New York Post, già citato, a cui faceva riferimento Glen Greenwald. Ma in questo caso, l’operazione fu ancora più assurda. Infatti, l’oscuramento di questa vicenda su Twitter non arrivò, come nel caso di Facebook, da una richiesta dell’FBI, bensì da Vijaya Gadde che si occupava in Twitter di moderare i contenuti. E l’azione non si limitò a bloccare solo alcuni tweet, ma anche a sospendere l’account del New York Post (non esattamente l’ultimo sito complottista senza dominio), con l’accusa di aver condiviso “materiale hackerata” (e dunque illegale).
La ricostruzione, per quanto abbozzata, delle due vicende (che abbiamo provato a legare attraverso il tema comune degli Hunter Files, nonostante i Twitter Files tocchino una vasta gamma di argomenti altrettanto cogenti e incredibili) dovrebbe aiutarci a capire cosa intendono i fondatori di Substack quando parlano di “problema di fiducia”. Com’è possibile fidarsi di testate giornalistiche autorevoli e con una storia se persino un giornale come il New York Times si piega all’ideologia di una parte politica e un social così diffuso usa l’arma della moderazione per manipolare l’informazione? Substack è diventata così la risposta di molti giornalisti all’operazione di silenziamento operata ai loro danni (e ai danni dei lettori) da parte del giornalismo mainstream. Attraverso questo canale di comunicazione, come di altri simili, molte grandi firme hanno trovato un nuovo spazio per conservare la propria libertà editoriale (che per un giornalista si traduce principalmente in libertà di informazione e di critica). Grazie a questa piattaforma alcuni importanti giornalisti sono riusciti ad acquisire gli strumenti economici e tecnici per arrivare a moltissimi lettori, eludendo così le maglie liberticide che stanno emergendo proprio grazie al loro lavoro. Glenn Greenwald, per esempio, arriva a guadagnare tra 1 e 2 milioni di dollari secondo le stime del Financial Times, mentre Bari Weiss (ex New York Times) viaggerebbe intorno agli 800.000 dollari.
Tuttavia, è importante notare, come evidenziato su Miglioverde da Pietro Agriesti, che “non avremmo avuto Substack e il suo successo, se non avessimo avuto un’ampia domanda per qualcosa di simile, per una piattaforma più indipendente e neutrale, che ha convintamente e coerentemente sostenuto un approccio alla moderazione online meno incline alla censura”. La perfetta sintonia tra domanda (dei lettori) e offerta (dei giornalisti indipendenti), dimostra come esistano alternative al sistema del giornalismo mainstream in grado di intercettare non tanto il consenso di una parte politica (gli autori citati, insieme a molti altri altrettanto importanti, non sono tutti o repubblicani o democratici), quanto la fiducia dei lettori, che grazie a queste realtà credono di potersi informare con un maggior margine di attendibilità rispetto alle realtà che li hanno ingannati più e più volte. Per usare le parole di Lee Fang, come si è detto da poco approdato su Substack: “Questa piattaforma mi sembra una casa naturale. Sono turbato dalla polarizzazione ideologica e partigiana che sta rimodellando la nostra società, una forza che soffoca la libertà di espressione in generale e l'indagine giornalistica in modo più specifico. L'ambiente generale dei media negli ultimi anni è stato modellato dalla conformità e, in molti casi, dalla paura”. Come abbiamo visto attraverso i due esempi di Greenwald e dei Twitter Files, Substack è davvero diventata “una casa naturale” per chiunque voglia fare giornalismo al di là di qualsiasi dinamica interna condizionata dalle temperie politiche o ideologiche.
Tra le critiche maggiori due sembrano essere quelle apparentemente più calzanti. La prima riguarderebbe il rischio di dare spazio a contenuti apertamente razzisti e incitanti all’odio o all’aggressione per via delle regole blande sulla moderazione dei contenuti. A questo rischio si può tuttavia rispondere con le considerazioni di Best, McKenzie e Sethi: operare la censura come altri canali sarebbe efficace? “Come sta andando? Funziona?”. Il principio è sempre lo stesso. La fiducia non si conquista “con un comunicato stampa o un divieto sui social media”. Per fortuna, abbiamo visto che il mercato è in grado di offrire alternative a chiunque venga tacciato di fare disinformazione (se non credete che questa sia una cosa buona, immaginate se a essere giudicate fonti di disinformazione fossero le vostre emittenti o i canali da cui vi informate), ponendosi in un contesto in cui è la qualità (e non la vicinanza a chi attualmente è al potere) a premiare o bocciare il proprio lavoro. La seconda critica riguarda invece il cosiddetto confirmation bias, il rischio, cioè, di fermarsi a quegli autori e a quelle pagine che esprimono le nostre stesse idee, senza quindi essere stimolati a riflettere criticamente di fronte a dei lavori che possano mettere in dubbio le nostre posizioni. Tuttavia, questa critica non sembra essere un’esclusiva di Substack. Infatti, come si è detto all’inizio, i giornali tendono a essere sempre più polarizzati e i lettori tenderanno sempre di più a informarsi attraverso spazi fortemente gestiti e regolati. Paradossalmente, potremmo invece sostenere che realtà come Substack siano un “mercato di idee” ben più pluralista e tollerante di quanto non si creda, almeno in principio.