Carlo Lottieri è un anarco-capitalista, un libertario. Sono termini poco usati in Italia, soprattutto in modo sensato. Lottieri lo è; anzi, parliamo di una delle figure più importanti sulla scena italiana. Ha studiato a Genova e poi a Parigi, per addottorarsi su Gaetano Mosca. È tra i fondatori dell’Istituto Bruno Leoni e collabora con Il Giornale. Insegna filosofia del diritto a Verona, ma sarebbe riduttivo limitarsi all’impegno accademico. Da anni è in prima linea a favore dell’autonomia delle comunità, a partire dalle regioni in cui ha vissuto, la Lombardia e il Veneto. È antistatalista e contrario a ogni forma di potere centralizzato. Non solo, ci mette in guardia da un’intellighenzia organica al potere di Roma: « Se votassero solo i miei colleghi universitari, la nostra libertà sarebbe ancora più ridotta». È stato un critico severo della gestione pandemica e ha curato una raccolta di saggi dissidenti, Leviatano e crisi del diritto (Giometti&Antonello, 2022). Si dice profondamente deluso dal nostro sistema giudiziario e, da elvetico nello spirito, dice no all’invio di armi in Ucraina, senza però fare sconti a Putin: «Stesso atteggiamento di Adolf Hitler». Di recente ha fondato Nuova Costituente, una nuova rete di connessione per i gruppi autonomisti sparsi in Italia. Questi sono solo alcuni dei motivi per cui abbiamo deciso di intervistarlo.
Iniziamo con la questione delle autonomie differenziate. In questi giorni regioni e governo stanno discutendo il tema, nonostante la titubanza dell’opposizione e la contrarietà di regioni come la Campania e la Puglia. Tu credi sia un progetto di trasformazione sostanziale o solo un paravento?
Direi innanzitutto che sarebbe irrazionale farsi delle illusioni. Non solo perché ci sono vincoli che vengono dal sistema istituzionale, da come la Costituzione viene interpreta dai suoi sacerdoti, ma anche perché in generale manca un consenso intorno a tali questioni fondamentali. È ovvio che immaginare autogoverno dei territori vuol dire mettere in discussione il tema (un autentico tabù) dei pari livelli di servizi assicurati a tutti. Soltanto che il federalismo, per la sua stessa natura, esige disparità (non solo economiche, ma anche di altro ordine), dal momento che l’autogoverno permette a ogni regione di svilupparsi in modo indipendente. Il guaio è che destra e sinistra, senza eccezioni, rifiutano tutto ciò. La cultura politica dell’Italia odierna non accetta che le singole realtà territoriali possano davvero gestirsi in modo autonomo e infatti a cinque anni dai referendum di veneto e Lombardia, che avevano dato indicazioni ben chiare, non è successo nulla. Non dimentichiamoci, inoltre, che l’autonomia differenziata in discussione è qualcosa che non può incidere sulla realtà, dato che è stata pensata per non mettere minimamente in discussione il potere sovrano centralizzato.
Storicamente quale forza politica, di destra o sinistra, è più vicina al federalismo?
C’è una realtà politica (quella che un tempo era la Lega Nord e ora è la Lega per Salvini) che ha agitato a lungo il tema dell’autogoverno e della secessione. È anche vero, però, che questo partito ha adottato in seguito un atteggiamento e una prospettiva molto nazionalisti. Il guaio è che il leghismo nei fatti ha impedito l’emergere di vere forze politiche secessioniste, poiché ha occupato quello spazio politico senza di fatto interpretare le ragioni dell’autogoverno. Il risultato è che oggi la Lega raccoglie un certo tipo di elettorato, ma poi senza non difende quelle tesi.
In Veneto come si è comportata la Lega?
Il caso del Veneto è clamoroso. Mentre Luca Zaia è stato considerato da molti l’uomo del Veneto che poteva dialogare con Roma, di fatto è stato l’uomo di Roma che teneva a bada il Veneto.
Qualche giorno fa è morto Roberto Maroni, uno dei fondatori della Lega Nord. Cosa pensa di lui?
Non l’ho mai conosciuto, però ho sempre pensato che sia stato un classico politico italiano. Chi ha seguito tutta la traiettoria politica di Maroni, dai tempi della rottura dell’accordo tra Bossi e Berlusconi, capisce che non è mai stato un uomo in grado di aprire verso l’autogoverno dei territori. Maroni è stato un Presidente della Lombardia che non ha mai alzato la voce e che, alla fine, ha avuto pure i funerali di Stato. Tanto per capirci, nulla a che vedere con Carles Puigdemont, che da anni è in esilio e in questi giorni rischia di perdere l’immunità parlamentare.
Tu l’hai incontrato di recente.
Sì, a Bruxelles. L’ho incontrato per capire in che modo sia possibile difendere anche all’interno del nostro mondo le ragioni dei catalani, così che possano decidere del loro presente e del loro futuro.
Una critica che viene fatta ai catalani è che non sono altro che i più ricchi che vogliono farsi gli affari loro. Spesso si è detto anche del Veneto e della Lombardia. È questo che c’è dietro l’autonomismo?
Le ragioni sono varie. Sicuramente i catalani hanno redditi superiori alla media spagnola: di conseguenza, una parte della ricchezza prodotta in Catalogna se ne va altrove (anche in quantità assai inferiore a quella che lascia Lombardia e Veneto). Oltre agli interessi, alla base della voglia di autogovernarsi ci sono però anche ragioni storiche, culturali e linguistiche. A ogni modo, se per ipotesi la spinta alla secessione venisse soltanto da motivi puramente economici, nessuno dovrebbe dire nulla, dato che le persone hanno il diritto di associarsi e dissociarsi liberamente. Se uno si sente penalizzato e sfruttato ha tutto il diritto di andarsene.
Tornando all’Italia e alle promesse tradite, quando Salvini è diventato il leader della Lega Nord ti saresti aspettando l’evirazione del nome e la svolta nazionalista?
Non ho doti di profeta, ma mi è sempre sembrato evidente che Salvini sia il miglior erede di Umberto Bossi. Ed entrambi basano la loro azione politica sul fatto che tutto ciò che è utile a fini elettorali può essere usato senza scrupoli. Ai suoi tempi Bossi era in grado di agitare il tema del secessionismo, poi alzare le bandiere del tradizionalismo cattolico, e infine ergersi a campione della lotta a Sivlio Berlusconi. Riuscì pure a divenire un’icona della sinistra parlando del “mafioso di Arcore”. Salvini mostra la stessa disinvoltura usando i temi caldi del tempo presente, purché la sua strategia sia pagante ai fini elettorali.
Dietro alla Lega di Bossi c’era un grande intellettuale, Gianfranco Miglio. Oggi abbiamo teste del genere che si occupano di politica?
No: nessuno. Tutto è cambiato e irrimediabilmente. L’universo politico dei vecchi partiti ideologici era un mondo basato sulla cultura, sui quotidiani, sullo studio. Quando ad esempio esce in lingua italiana 1984 di George Orwell, Palmiro Togliatti – che è stato l’uomo del Comintern in Spagna, ma che al tempo stesso fu un intellettuale di primissimo livello – scrive una recensione molto negativa in cui attacca Benedetto Croce. Per Togliatti era contraddittorio che un filosofo idealista come Croce non avesse colto come quel romanzo presupponeva l’esistenza oggettiva della realtà (fino al punto da contestare lo storicismo di matrice hegeliana). Nella politica italiana di quegli anni il livello del dibattitto era molto alto e tale resterà fino a Miglio. Entro quel mondo le idee erano cruciali. Poi è cambiato tutto.
In che modo?
C’è stato un totale svuotarsi dei rapporti tra partiti e pensiero, tra forme organizzative e linee di pensiero, dato che ormai esistono solo partiti personalistici. Quando trovo un post di Carlo Calenda che scrive “lingua veneta” con la “v” maiuscola, o si scorda il punto di domanda, è chiaro che siamo dinanzi a una politica prigioniera di un analfabetismo drammatico.
Chi è il politico più ignorante?
Non sarei in grado. È una bella gara.
Il meno ignorante?
Forse Sergio Rizzo, perché di fatto appartiene a quel mondo ormai finito di cui abbiamo già parlato. Un tempo, in effetti, per fare politica almeno un po’ bisognava studiare.
Se ci fossero stati in circolazione intellettuali del calibro di Miglio, credi che il biennio pandemico sarebbe stato politicamente diverso?
Non credo. Alla radici della disfatta di questi anni c’è qualcosa di molto più profondo, perché è stata la società italiana stessa a predisporre obblighi, censure e sanzioni. Prima, anche scherzando, mi chiedevi chi siano i politici più o meno ignoranti… Devo però aggiungere che in Italia è un’autentica fortuna che votino anche le persone meno istruite. Se votassero solo i miei colleghi universitari, la nostra libertà sarebbe ancora più ridotta. Abbiamo a che fare con una società fragilissima, che non ha la minima consapevolezza di cosa sia il diritto e che tende di volta in volta ad affidarsi a chiunque, ma questa inconsapevolezza è perfino maggiore tra chi ha studiato. Sono sempre più convinto che oggi gli intellettuali siano più un problema che una soluzione.
Ma perché secondo te gli intellettuali sarebbero così proni nei confronti del governo?
Credo che con l’avvento dello Stato moderno, all’incirca cinque secoli fa, si è costruita una situazione che di volta in volta ha portato a una crescente integrazione tra logiche sovrane e la società nel suo insieme. A un certo punto c’è stato un vero e proprio assorbimento del diritto da parte delle istituzioni politiche, al punto che le norme sono divenute legislazione, e cioè decisione politiche. In seguito l’economia è stata a sua volta inglobata grazie alla programmazione, agli aiuti pubblici, alla regolazione. E alla fine la stessa cultura è diventata una sorta di proiezione del potere statale: in questo senso basta pensare all’Università, dove uno che vuole fare carriera deve presentare (e vincere) progetti su taluni temi e non su altri. In una società così statizzata l’intellettuale finisce per essere assai più integrato che apocalittico. Il risultato è che non abbiamo più un mondo intellettuale veramente privato e anche per questo è impossibile attendersi dagli intellettuali che essi siano critici verso il potere.
Qual è stata la cosa che ha funzionato di meno in questi anni di pandemia?
La delusione più grande è arrivata dal sistema giudiziario. Nel momento in cui sono stati violati diritti fondamentali, in altre parti del mondo i tribunali hanno rappresentato un argine. In Italia assolutamente no.
La Meloni farà partire un’inchiesta. Credi all’atteggiamento critico del Presidente del Consiglio oppure pensi che sia soltanto modo, come sul tema dell’autonomia differenziata, di raccogliere qualche consenso?
Al di là della questione specifica dell’inchiesta sulle responsabilità, che comunque andrebbe fatta, c’è un dato che va tenuto presente quando ci si riferisce a Giorgia Meloni e al centrodestra. Bisogna essere consapevoli che viviamo in un mondo nel quale esiste un’egemonia progressista in tutta una serie di ambiti. La Meloni è perfettamente consapevole della cosa e sa che deve fare i conti con tutto ciò. Il fatto che lei controlli il governo, in quanto dispone di una maggioranza parlamentare, non equivale a dire che abbia in effetti il potere. Quando la cultura e gli interessi della magistratura, di Confindustria, dei media e via dicendo sono contro di te, devi agire di conseguenza. Un sano realismo politico la obbliga dunque ad accettare talune regole del gioco, per evitare sgradevoli conseguenze. Quindi anche la Meloni dovrà trovare numerosi compromessi.
A proposito di compromessi, la Meloni ha virato a favore del blocco atlantico sul tema della guerra in Ucraina…
È la dimostrazione, perché oltre ai limiti interni dovuti a un certo mondo che gode di potere, il governo italiano di centro-destra deve fare i conti pure con la Banca Centrale, con l’Unione europea e con l’amministrazione Biden. Davvero ci si può mettere senza problemi contro queste forze? In Italia hanno bullizzato Giorgio Agamben, che fino a tre anni fa era considerato uno dei maggiori intellettuali europei. In America hanno bullizzato John Ioannidis, nonostante avesse un h-index superiore anche a quello di Anthony Fauci. Non stupiamoci che la Meloni abbia cambiato la sua posizione in politica estera, così come ha fatto lo stesso Salvini, che pure aveva dei suoi uomini usi a frequentare l’entourage di Putin.
Che pensi dell’invio di armi in Ucraina?
Io sono elvetico nell’anima e penso che la migliore politica estera sia sempre la neutralità. Anche perché, se il termine difesa ha un senso, l’esercito dovrebbe servire soltanto a tutelarci dall’estero, e non già a lanciarsi in iniziative più o meno “umanitarie”. Non a caso Nicolò Machiavelli parlava della Svizzera come di un Paese liberissimo e armatissimo. Nel merito, per giunta, la questione del Donbass è assai complicata. È ovvio che Vladimir Putin per certi versi adotta lo stesso atteggiamento di Adolf Hitler, quando affermava che ovunque ci sia un tedesco lì è Germania. Putin è dunque un problema e assai serio. Ma dietro a Putin c’è una Russia in cui il leader gode di largo consenso: con questa realtà bisogna farci i conti. Non si possono semplificare oltremodo questioni tanto delicate: i rischi sono tali che bisogna saper lavorare per la pace e saper costruire una strada verso la convivenza. In questo senso, il modo in cui stanno man mano scaricando Vladimir Zelensky denota che un minimo di buon senso sta emergendo. Perché prima si arriva alla pace, che sarà sempre insoddisfacente, e prima si potrà porre termine a questo immane disastro che ha lasciato una terribile scia di lutti e distruzioni.
Va bene lo spirito elvetico, ma anche la Svizzera, oltre alla Svezia e alla Finlandia, si sono dichiarati non più neutrali nel caso dell’Ucraina…
Il caso della Svizzera è molto particolare. Posso immaginare che la Finlandia debba fare i conti con minacce e difficoltà reali, ma la Svizzera non può temere di essere invasa dalla Svizzera. Purtroppo, però, in casi come questo si vede che i principi e gli interessi delle classi dirigenti possono essere disallineati rispetto agli interessi della popolazione. La prosperità della Svizzera è dovuta anche a una lunga storia di neutralità. Ci sarà bisogno di un pronunciamento del popolo affinché si restauri presto una neutralità ora messa in discussione.
E sulle sanzioni?
Quella delle sanzioni è una logica tribale, assurda, incivile. Cosa c’entra il cittadino russo che mi vende i mobili da Ekaterinburg con le scelte imperiali di Putin? Perché la logica delle sanzioni è proprio questa: io per colpire te colpisco qualcuno della tua tribù (anche se non ha fatto nulla). Per giunta, sul piano storico, le sanzioni non sono mai servite a nulla. Pensa a Cuba, dove hanno aiutato Fidel Castro a fortificare la propria posizione. Oppure a Mussolini, che ebbe il massimo consenso dopo quelle che egli chiamò le “inique sanzioni”.
Non si toccano quasi mai i governi, ma invece si penalizzano i popoli...
Certo. C’è anche un’altra cosa. La Russia, per semplificare, ha un’economia di Stato e una piccolissima parte di economia indipendente. Noi abbiamo attaccato la seconda e non la prima, dato che avevamo e abbiamo ancora bisogno degli idrocarburi degli oligarchi putiniani.
In Italia si è diffuso moltissimo un sentimento sovranista sia nelle nuove destra che in una sinistra talvolta detta “rossobruna”.
Per certi versi è una rivisitazione del nazionalismo ottocentesco, ma ha un elemento nuovo. Il sovranismo si definisce non solo in termini nazionalistici, ma anche contro il disegno di un’Europa unificata dall’alto: qualcosa di ben più complesso e astruso dell’originario progetto risorgimentale di un’Italia unita. Un tempo si volevano “fare gli italiani”, ora si pretende addirittura di “fare gli europei”. Il costruttivismo pianificatore non ci ha abbandonato.
Quindi vi è un qualche sovranismo è anche nella visione europeista dei politici italiani?
Quanti intendono costruire un’Europa del tutto sganciata dalle volontà e dalla preferenze dei singoli e delle comunità sono la riproduzione, nel contesto del XXI secolo, di quelli che furono i cospiratori ottocenteschi che vollero fare un’Italia unita, ma senza alcun senso di giustizia. Sono tutte operazione a tavolino.
Tornando alla pandemia. Hai molto criticato l’obbligo vaccinale.
Non sono né un medico, né un epidemiologo. Ma in questi due anni le uniche competenze richieste sono state quelle degli scienziati di questi ambiti, mentre sarebbero state egualmente necessarie quelle degli psicologi, degli economisti, dei giuristi. Per quanto riguarda i vaccini, poi, i problemi sono vari. Una prima questione concerne sicuramente l’obbligo vaccinale. Io non discuto che il diritto, in certe circostanze, possa imporre vincoli in virtù di una ragionevole certezza che adottando un dato comportamento si configuri un danno – quasi certo e gravissimo – agli altri. Se un farmaco evitasse di uccidere le persone con cui un malato entra a contatto in un contesto pubblico, è chiaro che potrei uscire di casa solo avendolo assunto. Ma anche vedendo ciò che è emerso dalle dichiarazioni di Pfizer in un’audizione al Parlamento Europeo, è chiaro che la protezione dei vaccini è limitata, a livello di qualità e di tempo. Da qui l’illegittimità. Senza parlare che esistono cure assai efficaci contro il Covid-19. E poi c’è la questione degli effetti avversi, rilevati e denunciati da una serie di realtà dissenzienti, subito etichettate come “no vax”. In merito un episodio assai emblematico è quello dell’Università di Torino, che recentemente ha tolto il patrocinio a un convegno a cui partecipavano figure altissime della scienza in materia, da Ioannidis a Peter Doshi, direttore associato del British Medical Journal. Quando hanno capito che sarebbero state esposte anche tesi in disaccordo con le versioni che tutti noi dovremmo accettare secondo la vulgata governativa, hanno tolto l’appoggio. È chiaro che il dibattitto è in larga misura viziato, anche perché manca qualsiasi confronto, pure necessario e indispensabile alla scienza.
Tra gli “ambasciatori” della versione accettate c’è sicuramente Roberto Burioni che ha tenuto banco nella rete pubblica.
Non seguo la RAI.
Non lo hai mai ascoltato?
Ho visto dei post in cui ripeteva le cose di Draghi: abbastanza ridicole.
Crisanti invece è entrato in Parlamento.
Ci sono dei momenti della storia in cui taluni settori della società acquisiscono un certo tipo di centralità. Nel momento in cui la politica è spettacolo, avviene anche questo. Era scontato da come si muovevano.
Elon Musk propone la riammissione di Trump tramite un sondaggio e vorrebbe ridiscutere i termini del fact-cheking. Cosa ne pensi?
Io non so che intenzioni abbia Musk, ma quando dice di essere per il “free speech absolutism” io sono completamente d’accordo. Ognuno deve dire quello che vuole. Se c’è una cosa a cui non avrei mai pensato e che non avrei mai creduto, è che ci sarebbe stato un momento in cui l’America avrebbe tolto l’account al principale politico dell’opposizione. Eppure è accaduto.
Tu hai fondato Nuova Costituente. Di cosa si tratta?
Nuova Costituente nasce per proporre nel dibattitto pubblico l’idea che ogni comunità territoriale debba riappropriarsi del proprio futuro attraverso l’autogoverno locale. Stiamo costruendo legami con realtà localiste, dalla Sardegna al Veneto, e allo stesso tempo stiamo cercando di capire come farne nascere di nuove in regioni in cui ancora non c’è nulla di simile. Nuova Costituente non vuole presentare un localismo contro l’altro. Si vuole invece creare una sorta di alleanza tra tutti coloro che desiderano una fase costituente che mettano al centro le comunità locali.
Come sta andando?
La strada è ancora lunga, ma siamo molto soddisfatti. Penso che la coerenza e la serietà stiano cominciando a pagare.
Ultima domanda. So che stai lavorando alla fondazione di una nuova università privata.
Questi anni hanno dimostrato che c’è la possibilità di fare corsi online con docenti e studenti collocati in ogni parte del mondo: superando i costi delle trasferte e creando spazi culturali ed educativi liberi. Ora c’è il progetto di una nuova università, che collabori strettamente con una nuova realtà analoga sorta in Spagna (Universidad de las Espérides). Un imprenditore veneto sta muovendosi in questa direzione e io sto dandogli una mano, con l’idea è di iniziare già a settembre 2023. Si partirebbe con Scienze politiche ed Economia, ma anche con un master in Imprenditoria e creazione di aziende. L’università vuole essere un’impresa che sta sul mercato, ma che ha dei principi fermi e irrinunciabili, a partire dalla difesa della libertà individuale e della responsabilità individuale.