“Nulla di nuovo da Fratelli d’Italia: (…) è l’ennesima presa per i fondelli da un partito di statalisti, centralisti e romanocentrici che si ispira al fascismo. (…) Parlano di autonomia, ma come federalismo municipale. Ma di cosa stiamo parlando?”. Già: di cosa stiamo parlando? Parliamo dell’emorragia che drena consensi dalla Lega al partito di Giorgia Meloni: alleati sì, ma anche, se non soprattutto, concorrenti in una competizione tutta interna al centrodestra. E la frase con i due omissis, durissima, non l’ha pronunciata un avversario dell’antifascismo militante (magari, toh, giusto un po’ fan del Titolo V della Carta, riformato dal centrosinistra nel 2001). L’ha proferita il 9 settembre, cioè appena dieci giorni fa, un leghista di provata fede, per la precisione il capogruppo regionale in Veneto Nicola Finco.
Perché è dal Veneto che bisogna partire, per immaginare il possibile scenario post-elezioni. Che molto probabilmente vedrà la Meloni portata in trionfo a Palazzo Chigi, ma che spingerà anche un assottigliato e risentito pattuglione leghista ad andare in cerca di validi pretesti per renderle la vita difficile. Cioè per sganciarsene, nel caso in cui le cose dovessero mettersi male quando l’Unione Europea, in cambio dei 200 miliardi del Pnrr, esigerà in sostanza la continuazione della politica di Draghi. Ossia, nella pratica, pretendendo dalla Meloni l’auto-sconfessione di due anni di opposizione. Ecco spiegato il motivo, non banalmente ideologico ma tutto politico, del voto di Fratelli d’Italia e della Lega contro la condanna dell’Ungheria di Viktor Orbán. Temono di finire anche loro dietro la lavagna, una volta alla guida del Paese, sia pur per motivi legati alla politica economica o alle posizioni sulla guerra in Ucraina. E allora, assediati dai maestrini di Bruxelles, e magari pure sotto i bombardamenti speculativi dei soliti “mercati”, ogni componente della coalizione dovrebbe pensare alla propria sopravvivenza. Fino, chissà, alla deflagrazione di una vera e propria crisi di governo. Mors tua vita mea.
Per mascherare meglio lo scatafascio, le parole d’ordine evergreen tornerebbero sempre buone. E qui, sul versante Lega, entra in gioco la formula magica dell’autonomia. Non è una teoria giornalistica. L’ha detto papale papale, urbi et orbi a Pontida durante il raduno del Carroccio, l’autonomista per eccellenza, Luca Zaia: “L’autonomia vale anche la messa in discussione di un governo”. Si dirà: sparate da campagna elettorale. In parte è così, ma rappresentano l’avvisaglia di un dissidio per ora latente, uscito allo scoperto soltanto di sfuggita, ma che ha tutte le caratteristiche per esplodere se le condizioni per governare dovessero complicarsi. Nelle due Regioni che fanno da serbatoi di voti per la Lega, Lombardia e Veneto, e in particolare in quest’ultimo l’autonomia è la bandiera agitata da “50 anni”, per citare sempre Zaia, sognando un giorno – un giorno che non arriva mai – di diventare “paroni a casa nostra”. Si dà il caso, però, che proprio nelle pianure venete il rapporto di forza sia destinato, almeno stando alle previsioni, a rovesciarsi, con uno storico sorpasso del partito erede di Msi e An sugli orfani di Bossi. Una batosta per Matteo Salvini. E un’umiliazione cocente per Zaia nonché per i colleghi governatori Attilio Fontana e Massimo Fedriga, scalpitanti dietro le quinte per imprimere un diverso corso, più moderato e quindi, di fatto, anti-salviniano, a una Lega dissanguata dall’alleato-antagonista.
Fratelli d’Italia, a sua volta, non ha mancato di marcare le distanza riesumando uno dei suoi antichi cavalli di battaglia. In visita nella tana del Leòn due settimane fa, il fiduciario meloniano Guido Crosetto ha lanciato il siluro: autonomia sì, ma solo se accoppiata con un imprecisato e curioso “federalismo municipale”, new entry assoluta nel repertorio di destra. E in ogni caso in un’agenda di priorità in cui, oltre al caro-bollette, prima viene il presidenzialismo. Orbene: il presidenzialismo vale per Fd’I come l’autonomismo per la Lega. È il vessillo di una vita, fin dall’epoca missina. Ed esattamente come per la mitologica autonomia, viene rispolverato più o meno a ogni passaggio elettorale. Con accenti variabili a seconda delle convenienze del momento. E in questo momento, sottolinearne la precedenza in uno strategico ballon d’essai serve appunto per tenere pronta la carta da gettare sul tavolo un domani, se si rendesse necessario averne una per l’eventuale casus belli con i fraterni “amici” leghisti.
Anche perché, come fanno osservare con malizia i beninformati, una esclude l’altro: Regioni come il Veneto e la Lombardia, vitali per l’economia e il bilancio del Paese, non possono pensare di strappare un decentramento sostanziale, poiché altrimenti svuoterebbero in senso diametralmente opposto l’accentramento dei poteri nelle mani di un futuribile Presidente della Repubblica eletto dai cittadini, alla francese. Morale: dovendo individuare una motivazione plausibile e vendibile ai rispettivi elettorati per azzuffarsi e rompere, la Meloni sfodererebbe l’excalibur presidenzialista, mentre Salvini (sempre ammesso che resti in sella, dipenderà da quanto deludente sarà il risultato delle urne) si aggrapperebbe all’araba fenice autonomista. In tutto ciò, la nota di colore finale: Forza Italia, che dà segnali di vita ormai solo nel Mezzogiorno, dove conta di razzolare un po’ di preferenze con una candida conversione in zona cesarini al reddito di cittadinanza (sic), non è neanche in partita. Licia Ronzulli, responsabile azzurra delle relazioni con gli alleati, da brava assistente del neo-tiktoker Silvio Berlusconi controlla l’agendina del Cavaliere concordando le strategie più con loro che con lui. Ma a bisbigliarlo sono le prevedibili malelingue di un centrodestra che, forse, non ha poi tutta questa gran voglia di governare un’Italia avviata alla recessione, ostaggio dei vincoli esterni e con un tasso di faziosità sempre gagliardo.