Giorgia Meloni neppure ventenne era una (post)fascistona che si librava in elogi del Duce. Ma dai. È il video che gira in questi giorni sui social, ricicciando lo spezzone di un’intervista datata 1996 in cui l’allora responsabile di Azione Studentesca (i giovani di Alleanza Nazionale) disse che “Mussolini fu un buon politico”, che “tutto quel che ha fatto lo ha fatto per l’Italia”, e che “non ci sono stati altri come lui negli ultimi cinquant’anni”. È noto che noi italiani imitiamo sempre in peggio gli amici anglossassoni, che erano e restano dei puritani: sono loro che nelle campagne elettorali usano tirar fuori presunti scheletri nell’armadio che poi si rivelano stupidaggini, tipo Clinton o Blair che si facevano le canne all’università. Ora ci viene ricordato, a noi smemorati, che la Meloni se le faceva inalando il principio, ahinoi sempre attivo, contenuto nel mito del Crapùn. Un residuato letteralmente bellico, che aveva fatto il suo tempo trent’anni fa (e anche prima). Figuriamoci oggi.
Intendiamoci bene: è indubbio che Benito Mussolini rappresentasse allora, a pochi anni dalla fine del Movimento Sociale Italiano con la svolta di Fiuggi, e, in una certa misura, rappresenti ancora un fantasma fascinatorio per la psiche collettiva della destra italiana (orfana, come del resto tutte le altre parti politiche, di mitologie forti). Sintetizzando la Buonanima l’ultimo trauma profondo che il nostro nevrotico Paese ha vissuto, ossia la guerra mondiale con annessa guerra civile tra fascisti e antifascisti, si può capire come mai persista nell’aleggiarci addosso come uno spettro, da una parte con gli ammiratori più o meno nascosti per i quali, tutto sommato, “aveva fatto anche cose buone”, e dall’altra con gli odiatori la cui idea fissa è la lotta eterna al suo cadavere a Predappio. Ma l’Italia del 2022 - a cento anni, dicasi 100 anni dalla Marcia su Roma - non pare attraversata da colonne di camicie nere che intendano fare del parlamento un bivacco di manipoli (eventualità antropologicamente remota, visto che il manganello odierno ce lo infliggiamo da soli, anzi, ce lo abbiamo praticamente incorporato e si chiama telefonino, strumento perfetto per distrarci e autocontrollarci).
Ai nostalgici alla rovescia che resuscitano il pericolo di fascismo a ogni tornata elettorale, facciamo sommessamente notare giusto qualche fatto attinente all’attualità, se mai se lo fossero perso. Giorgia Meloni, donna-madre-cristiana, ha giurato e spergiurato fedeltà assoluta alla Nato e agli Stati Uniti, che hanno sul nostro territorio un centinaio di basi militari per averci liberato dai nazisti e dai fascisti (un mutuo che non scade mai, ma vabbè). Giorgia Meloni ha sostenuto, allineata al governo Draghi, l’invio di armamenti italiani all’Ucraina. Giorgia Meloni, da ministro della Gioventù con Berlusconi premier, non fece un plissè quando nel 2011 fornimmo le piste aeree per i bombardamenti alla Libia, a cui dobbiamo in buona parte la cronicizzazione dei famosi sbarchi di migranti su cui la destra, sua e di Salvini, lucra voti da vent’anni. Giorgia Meloni fu a favore, come quasi tutti, del pareggio finanziario in Costituzione nel 2012, che ci lega mani e piedi ai contabili tedeschi e nordeuropei, in quanto “Dio lo vuole”, lo voleva l’Europa, e ora nel programma pietisce la “revisione delle regole del Patto di stabilità”.
Giorgia Meloni ha appoggiato tutti i governi di centrodestra dell’ultimo ventennio che, dalla legge Biagi in poi (anno 2003, benchè anticipata dai pacchetti Treu, anno 1997, targati centrosinistra), hanno ridotto l’occupazione a una poltiglia di contrattucoli e stipendi da fame contro cui ora invoca al primo punto della politica sociale l’immancabile taglio del cuneo fiscale (sì, ciaone), proposta condivisa dal Pd e dal duo Renzi-Calenda. Della serie: trova le differenze, circoscritte ai diritti civili, alla propaganda elettoralistica sulla flat tax e alla retorica puramente emotiva, superficiale, la dopamina destrorsa di “Dio, Patria, Famiglia” (motto, questo sì, fascista, ma senza che nessuno ci creda più veramente, viste le messe semi-deserte, i nostri soldati morti in guerre del Pentagono e il calo inesorabile dei matrimoni). Battaglie confinate all’ambito che conta meno, rispetto ai vincoli esterni che ci condizionano dall’estero e che, bontà loro, ci lasciano in queste materie un relativo margine di autonomia.
Che poi in Fratelli d’Italia i rimasugli “neri” si mimetizzino, soprattutto nelle seconde e terze schiere che la Meloni tiene con la museruola alla bocca, onde evitare che qualche incontinente non si faccia beccare a fare il saluto romano o spari qualche post buono per Corrado Formigli e Fanpage per inchieste sull’acqua calda, questo è vero. E la recente condanna in formato trilingue del fascismo (in accoppiata fissa con il comunismo, riflesso pavloviano per non scontentare troppo la base legata alla “fiamma”) è un’evidente excusatio non petita. Ma se si fa senza paraocchi il bilancio complessivo, la “rivelazione” che la Meloni nel ’96 su Mussolini la pensasse più o meno come Gianfranco Fini due anni prima (“maggior statista del secolo”), in questo momento storico, con il prezzo del gas decuplicato, l’impoverimento che avanza, la desertificazione affettiva difficile da curare con qualche mancia alias “quoziente familiare”, beh, sinceramente, non ce ne può davvero fregare di meno.