Belli, gonfi di buone intenzioni e senz’altro utilissimi, gli Stati Generali della Natalità, alla loro seconda edizione il 12 e 13 maggio a Roma. Scintillante il parterre de roi: si va da Enrico Letta e Matteo Salvini fino a Giovanni Malagò, passando per il capitano della Roma Lorenzo Pellegrini e finendo, tra i parecchi altri, con il presidente dell’Enel, Michele Crisostomo. Ottimi i tavoli tematici del maxi-convegno, tutti all’insegna del “si può fare” (conciliare famiglia e lavoro, raccontare i figli come “Bene Comune” e “desiderio di bellezza”, stipulare l’ovvio “patto” che “unisca tutto il mondo politico”, magari finalizzato a procacciare i “fondi del PNRR”). Tutto ottimo e abbondante. Ma la realtà futura potrebbe essere molto peggio di quella attuale, che già di suo è abbastanza allarmante, dato che nel 2021 le nascite sono state 399.431 mentre i decessi quasi il doppio, 746 mila.
Un record assoluto dal dopoguerra a oggi, che sembrerà paradiso rispetto alle previsioni della Population Division delle Nazioni Unite, secondo cui fra 50 anni gli italiani saranno 12 milioni in meno. Il dato, citato dal demografo Roberto Volpi intervistato sull’ultimo numero di Famiglia Cristiana, apre a un orizzonte foschissimo: mentre nel 2020 eravamo 60 milioni, a fine secolo saremo ridotti a 40, e se dovessimo continuare con un ritmo di appena 400 mila nuovi nati all’anno scivoleremo a 30 milioni. Livelli da Italia ottocentesca.
La raffica di numeri può far girare la testa. Il fatto è che la testa sembra proprio che l’abbiamo persa. Non da oggi, è chiaro. L’opinione di Volpi è che c’entri parecchio il fattore culturale, legato al dimezzamento dei matrimoni religiosi: la metà su 184 mila del 2019, mentre negli anni ’60 la quasi totalità si celebrava in chiesa. Le unioni davanti al parroco garantivano maggior fertilità perché contratte in età più giovane, e perché più stabili. Indubbiamente, il tracollo dei sì davanti all’altare, un impatto deve averlo avuto. Ma a parte che è quasi superfluo ricordare che nel mezzo si sono succedute conquiste civili come il divorzio (1970, confermato nel referendum del ‘74), il nuovo codice di famiglia (1975) e l’aborto (1978), si potrebbe aggiungere alla disamina qualche altra cifra e qualche altro fatterello di non poco momento.
Il primato negativo dell’Italia nei matrimoni in generale (3,1 ogni mille abitanti all’anno, contro 4,3 in Europa) andrebbe messo in relazione con le statistiche Istat sulla voragine di singles, arrivata nel 2020 alla spaventosa percentuale del 33,3%, dieci punti in più rispetto a dieci anni fa. Un terzo delle famiglie, cioè, è “unipersonale”, come si dice in gergo. Ovvero non è una famiglia, ma una persona sola. Nel 2017, un rapporto Eurostat segnalava che gli italiani che affermavano di non poter chiedere aiuto a nessuno in caso di bisogno doppiavano la media dei 28 Stati esaminati: 13% contro 6%. Eppure, sempre stando all’Istat, nella fascia tra i 18 e i 49 anni soltanto 500 mila sono coloro che nel nostro Paese non inseriscono la paternità o maternità nel proprio progetto esistenziale (anzi, il 46% dei residenti vorrebbe non meno di due figli). "L’impressione di fondo", commentavano gli autori del dossier, è che l’Italia “non riesca… ad assecondare un desiderio visibile nella società che può realizzarsi solamente rimuovendo tutti quegli ostacoli che hanno impedito in questi anni, a uomini e donne, di costruire la propria indipendenza, di avere i figli che volevano e di tradurre in realtà un loro desiderio".
Ecco, senza presunzione di esaustività passiamoli in rassegna, gli ostacoli. Per cominciare, la banale, drammatica, frustrante mancanza di denaro per mantenersi e metter su famiglia: i salari, unico caso nel continente, sono più bassi del 1990, e nonostante il mix letale di effetti economici della pandemia, caro bollette e inflazione, la metà di chi ha un lavoro dipendente prende la stessa paga di quattro anni fa. La precarietà è salita di 133 mila unità soltanto da gennaio a oggi, schizzando a un totale di 3,2 milioni di persone che non sanno se l’anno prossimo avranno la pagnotta a fine mese, mentre i rapporti a tempo indeterminato sono scesi di 81 mila. Il 15% dei lavoratori è working poor, per dirla in inglesorum: è tecnicamente povero, con stipendi da fame che si aggira attorno al tanto infamato reddito di cittadinanza, il cui massimo si ferma a 780 euro. Son tutti dati ufficiali, sempre Istat.
Questo per snocciolare la fredda e incontestabile numerologia del ceto medio proletarizzato. Poi, però, bisognerebbe metterci l’altro carico da novanta, più difficile da quantificare ma non meno palpabile e non meno visibile, per così dire, a occhio nudo. Volpi ne accenna quando parla della lentezza media d’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. È verissimo che in Italia uno si sistema, se e quando si sistema, a 40 anni anziché 20 o a 30. Fra l’altro, la destabilizzazione occupazionale di questi due anni di Covid 19, inducendo molti a riscoprire il valore del tempo in rapporto alla retribuzione, ha generato non solo licenziamenti ma pure dimissioni a catena da parte di gente malpagata o comunque non abbastanza, soprattutto di mezza età, ora legittimamente alla ricerca di un posto meglio remunerato.
Tuttavia mettere al mondo dei figli non è mai stata una scelta basata esclusivamente sui conti da calcolatrice, perché comporta per definizione un sacrificio in termini non di sole finanze di coppia, ma anche, appunto, di tempo da donare, e da donare senza restituzioni, alla cura del pargolo. Altrimenti, figlierebbero solo i ricchi o i benestanti con sufficiente grasso che cola dalla borsa.
Giudichi il lettore, allora, se non sia il caso, posto come certezza che senza un reddito decente non si fa la spesa né si contrae un mutuo per la casa, d’interrogarsi sulla scala di priorità diffusa in una società divorata dalla solitudine esistenziale, la cui “natura paradossale”, com’è stato opportunamente osservato, consiste nell'essere "figlia legittima di una precisa – e prevalente – concezione della libertà", la libertà del singolo-atomo che lotta contro l’impoverimento annaspando, fra una chattata e l’altra, nelle sabbie mobili di una sempre meno confortevole comfort zone (Mattia Ferraresi, "Solitudine. Il male oscuro delle società occidentali", Einaudi, 2020). Una libertà secondo la quale è più facile ammettere di essere depresso piuttosto che di essere solo, "perché solo è sinonimo di perdente", come scriveva nel 2009 lo psichiatra Richard Schwartz nel suo “The Lonely America”.
Una libertà sberluccicante di start up, innovazione, flessibilità e opportunità ma senza nessun paracadute sicuro e adeguato che non sia la pensione dei genitori o dei nonni. La libertà briatoresca del farsi “imprenditori di se stessi”, da eterni apprentice. Quella libertà levigata e aperitivistica che tanto attrae gli immigrati che vengono sì da noi (sia pur con meno foga: 5 milioni 756 mila nel 2021, in calo del 2,8% rispetto all’anno precedente), ma quando sbarcano sognano molto di più il Nord Europa, che non a caso ha un welfare ancora tutto sommato da bomba e un tenore di vita meno disagiato. Immigrati che vengono considerati l’arma di una Grande Sostituzione che fa comodo ai padroni del vapore, ma che in realtà, piaccia o no, rappresentano l’unica, sebbene calante anch’essa, valvola di alimentazione di una vitalità, di uno slancio, di una voglia di vivere (e non solo di sopravvivere) che, a un tasso di fecondità a 1,22, a noi fa clamorosamente difetto. Sì insomma, se il migrante, aspirando anch’egli a un’esistenza dignitosa, ci rimpiazza, lamentiamoci con noi stessi per non esserci ribellati, o non averlo fatto abbastanza, a leggi sulla precarietà lavorativa, all’avanzata dell’insicurezza sociale e alla cultura anaffettiva della solitudine di massa. Che è molto connessa online, ma che di connessioni umane ne conta sempre di meno.