E adesso vediamo andare via Roberto Maroni, per tutti anche “Bobo”, ucciso da un’ingiusta malattia. C’è ora da immaginare la gente della sua Lega, forse la prima, quella dei primi giorni, a piangerne la scomparsa prematura. Con lui si allontana tuttavia anche un sogno altrui, probabilmente irreale. Il miraggio di chi, sebbene non leghista o addirittura estraneo alle ragioni e alle bandiere secessioniste padane, sperava che d’improvviso, miracoli della discontinuità, esattamente da Maroni giungesse un segnale di rottura verso il prosaico “celodurismo” razzista del Nord, proprio di una nuova destra identitaria e regressiva, localistica, orgoglio del proprio Nord. Che da “Bobo” insomma venisse un pronunciamento, ma sì, “di sinistra”, magari in un raduno laggiù a Pontida. Maroni che, rivolgendosi a un popolo già orgoglioso della canottiera di Bossi, invita infine tutti a buttare nel fiume pulsioni e paccottiglia regressivi: non più la spada minacciosa di Alberto da Giussano, non più le ampolle rituali del Dio Po, e ancora basta con gli elmi da vichinghi padani, le barbe da scozzesi bergamaschi e, s'intende, ogni altro greve souvenir secessionista, affinché la Lega, ormai lontana da ogni populismo rionale, non più armata di panzer accroccati in garage per occupare la Laguna veneziana, potesse affiancare infine degnamente lo schieramento progressista, se non proprio disposta ad aderire alla galassia riformista, forse perfino “post-comunista”. Davanti a questa supplica implicita silenziosa, Maroni sembrava accennare mezzo sornione sorriso, sotto i baffi e la montatura vistosa, suo vezzo sfumatamente narcisista. La convinzione che proprio da lui, soltanto da lui, potesse giungere la svolta, perveniva dal dato biografico. “Bobo”, sedicenne, aveva perfino militato in un gruppo marxista-leninista nella sua Varese. Il richiamo delle origini, insomma. D'altronde, non era forse stato perfino iscritto a Democrazia proletaria?
E poi altro ancora: anche nei suoi giorni altamente ministeriali, Maroni amava dilettarsi tra pop, blues, rock e soul. Tastierista, organo Hammond. Distretto 51, la sua band di Varese. Nel 2005 un primo album, cover di Bob Dylan, Bruce Springsteen, Marvin Gaye, Sam Cooke, Paul Simon, Traffic e Carole King. E ancora, tra gli altri, l'uomo raccontava di apprezzare, Stadio, Zucchero e Paolo Conte. Maroni da scorgere non più in giacca tweed, semmai "Bobo" in giubbotto jeans al piano. Accanto alla sua attività di politico – Maroni è stato ministro dell’Interno nei governi Berlusconi e ancora ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali nonché presidente della regione Lombardia – i più attenti ai trambusti occasionali che talvolta accompagnano le vite di chi comunque riveste un ruolo istituzionale, hanno memoria di lui improbabile “cannibale”. È il 1998, e su Maroni piomba una condanna in primo grado a otto mesi per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. Così per avere tentato, recita una leggendaria sentenza, di mordere un polpaccio a un agente di polizia incaricato di perquisire la sede milanese della Lega in via Bellerio. In verità, con immenso amaro disdoro di chi sperava in lui, perché no, una quinta colonna tra le bandiere padane o di San Marco e le camicie verdi, da Maroni non giunse mai il segnale dell’ora X, destinata a consegnare alla Lega un’impronta non più razzista, xenofoba e antimeridionale. Beato candore altrui.
Nel tempo, davanti al mutamento di pelle del suo movimento, con l’ascesa di Matteo Salvini, intatto nelle pulsioni razziste, Maroni troverà, forse controvoglia, la seconda fila che si concede infine ai nobili fondatori giubilati, esiliati, posti opportunamente ai margini. In questa dissolvenza incrociata il suo volto sembrava implicitamente suggerire distanza assoluta dal ghigno e dalla gestualità populista del “Capitano”. Forse, ripensando alla congiura d'ogni Bruto contro Cesare, non esiste futuro certo per nessun padre fondatore che abbia segnato il tempo dell’inizio d'ogni avventura politica vincente. Nell’ideale cenotafio della memoria leghista, ritroviamo infine Umberto Bossi, la sua sedia a rotelle cui è costretto dopo l’ictus, Bossi a sua volta da giovane militante comunista, Bossi già aspirante cantautore, Donato il suo pseudonimo, “Ebbro/Sconforto” il titolo dell'unico singolo inciso, e adesso anche "Bobo", già protagonisti sfumati di un'avventura politica che impropriamente o forse d’abitudine molti si ostinano a chiamare seconda Repubblica, così in attesa della terza.