Per tre decenni Matteo Messina Denaro è stato un fantasma, nient'altro che la sua “fototessera”, la propria assenza, sebbene vigile, uno scatto in bianco e nero sgualcito da “Patente di guida A”. Così il suo volto ufficiale, iconico, identitario, la sua traccia di latitante, segno visivo immediato della “nuova mafia”, incarnata anagraficamente da un uomo nato negli anni Sessanta. Messina Denaro giunge infatti al mondo criminale siciliano nel 1962, i giorni della morte di Marilyn Monroe. Matteo, un baby-boomer. Professionista di mafia da supporre già tecnocratica, cioè post-contadina, non più dai “piedi incretati”, assente all’orpello paesano della “coppola”. Sebbene mafia garantita come "stragista", nonostante sia cresciuta fuori dallo storico, folclorico, contesto agrario corleonese. Matteo assai meno “viddano” di "Totò" Riina e “Binnu” Provenzano, quest’ultimo detto “’U Tratturi”. Matteo comunque cittadino, “borghese”. Della sua Castelvetrano, contea di Trapani. Messina Denaro andava infatti recepito nella scheda da ricercato – Wanted - in Ray-Ban “modello con parasudore”, come ogni giovane “toco” e convinto di sé di Sicilia. Mafioso ulteriore, sì, eppure non della nobile cuspide palermitana, semmai di un luogo che può vantare, fra molto altro, l’atto di nascita del filosofo Giovanni Gentile, onorato da un busto di bronzo nella agorà principale cittadina. E ancora, “location” storica post-bellica, il “Cortile Di Maria”, dove, nel 1950, venne dai Carabinieri inscenata la falsa uccisione del bandito Salvatore Giuliano, il rinvenimento di un cadavere già giustiziato a freddo dal “delfino” di "Turiddu", Gaspare Pisciotta, opera oscura del capitano Perenze, aiutante maggiore del colonnello Luca, misteri di Stato, tra i primi dell'Italia repubblicana.
Proprio a Castelvetrano, un po’ di estati fa, chi scrive, giunto in tenuta da diportista, subito ebbe la plastica sensazione di un attento e pervicace controllo del territorio: gli occhi dei paesani, concittadini del boss Matteo, a scrutare, di più, “attenzionare” l’estraneo, il “gringo”. Residenti mossi da un pensiero molto siculo, anzi, assodato che si tratti della punta estremo-occidentale dell’Isola, sicano: “Ma questo, a chi minchia appartiene?”. Quanto alla dinamica della cattura, Messina Denaro Matteo, “boffa ‘nta minchia”, titolo da leggere come esempio di alta aristocrazia criminale, paziente oncologico che si reca in un ambito nosocomio privato della città di Palermo, perché forse terminale, cioè alla fine dei suoi giorni, ossia stanco e ammalato, molti diranno che si possa trattare di una “resa” addirittura concordata con lo Stato e certe sue autorità, comunque da tempo sulle sue tracce. O forse che i “suoi” lo avrebbero infine “posato”... Pronunciando a mezza bocca: “… figurati, se era ancora lui capomafia in servizio mica si faceva arrestare…” e magari ci sarà una coda di compatimento per il boss baby-boomer ormai triste e solitario y final. Figurati…
Le prime immagini della cattura, scattate un istante prima di ficcarlo nell’abitacolo del blindato dei ROS, mostrano, su tutto, il suo giaccone di montone rivoltato, modello “bomber”, il berretto dello stesso materiale a coprirne il capo, abbigliamento da lussuoso convalescente che voglia non prender freddo, ancor di più in una Palermo insolitamente piovosa; non il Teatro del Sole, come la incastonavano i suoi viceré spagnoli. E ancora gli occhiali da sole di foggia rettangolare, vezzo da frequentatore di negozi di ottica di un certo gusto... Tuttavia nel primissimo video artigianale che lo riporta al mondo conosciuto, effettuato con un cellulare dagli agenti in tenuta antisommossa, sembra quasi di scorgere in lui il sosia di Nicola Di Bari.
Dico così e mi torna alla memoria un murales realizzato anni addietro per amore di provocazione pop, comparso alle spalle della Cattedrale di Palermo, su un muro che delimita piazza Settangeli dalla chiesa. Negli articoli che denunciavano quell'apparizione forse apologetica si diceva che "il boss nelle sue lettere cita Jorge Amado e Toni Negri e discetta di politica e giustizia. Nella corrispondenza coi suoi affiliati si fa chiamare Alessio o Svetonio". Opera forse di un giovane artista siciliano, lì il volto di Messina Denaro veniva iconicamente riprodotto in sequenza, il suo volto replicato allo stesso modo di come fa Andy Warhol con Marilyn, Liz Taylor o Elvis.
Scrivono, dicono ora: si chiude un’era, un ciclo, il tempo della mafia stragista. E intanto, sotto gli scrosci di gennaio, Messina Denaro sembra assomigliare sempre più a un insignificante residente, metti, di viale Strasburgo, colui che nelle ordinarie mattinate festive ritrovi fra bar e pasticceria. Nel raccontare il suo arresto si spalanca, come in un cinegiornale, la ricostruzione degli ultimi quarant’anni del repertorio criminale della Cupola: dalla guerra di mafia all’uccisione di Falcone e Borsellino, e molta altra carne uccisa ancora; la Sicilia, ma soprattutto il fondale di Palermo, la Sicilia che per molte stagioni segnata dalla guerra di mafia, la stessa che sempre un tempo faceva dono alla letteratura giornalistica interi scaffali di nuovi titoli, conquistando le prime posizioni di vendita, per poi trovare il silenzio, la scomparsa mediatica della Trinacria stessa.
Matteo Messina Denaro, nell'ordine: “Primula rossa”, “imprendibile”, “faina” dai Ray-Ban immancabili, ciò che ogni baby-boomer isolano un tempo indossava, come si dice a Palermo, per puro “smarro”. Poi la faina finisce in trappola nel quartiere San Lorenzo, dominio rionale "ad alta densità mafiosa", lungo la strada che corre verso Tommaso Natale e Cardillo, non prima di sfiorare Villa Boscogrande, dimora nobiliare dove Luchino Visconti volle ambientare “Il Gattopardo” con Burt Lancaster nella redingote del principe di Salina, e ancora, proseguendo fino al mare, Sferracavallo. Chissà come staranno commentando adesso, proprio lì, nelle terrazze destinate al piacere dei frutti di mare e della pasta al nero di seppia, l’arresto improvviso e imprevisto di Messina Denaro? Un passo ancora ed è già l’aeroporto “Falcone e Borsellino”, ciò che i palermitani continuano a chiamare “Punta Raisi”.
Qualunque cosa possa essere detta sulla sua cattura troverà comunque il limite della retorica, e parole di encomio trionfalistico per i Carabinieri, “i sbirri” che hanno realizzato il blitz, tra gli applausi di alcuni astanti che hanno mostrato di avere a cuore, bontà loro, l’idea della legalità. Si sappia però che assai certamente in un’altra piega della città, neppure tanto segreta, qualcuno in questo momento starà versando lacrime di bile per "Matteo", magari domandandosi come sia stato possibile che l’abbiano arrestato, o forse immaginando appunto che infine abbia deciso proprio lui di consegnarsi, non prima di avere passato le carte della Cupola ai suoi eredi, questi ultimi già “millennial”. Di sicuro per tutti loro già da domani quel cappotto di montone rivoltato diventerà un must, outfit di mafia al tramonto, in attesa di quella nuova.