Avete presente quei fuochi d’artificio sparati d’estate alle feste di paese, che durano quanto una storia su Instagram e scatenano gli “ohhh” degli astanti solo il tempo di distrarsi prima del silenzio? Per Daniele Capezzone, il caso Garlasco è esattamente questo: un bengala sparato nel cielo torbido della giustizia italiana, pieno di luci, fumo ma nella sostanza nulla. Capezzone, nell'editoriale scritto su Libero, non ci gira intorno: siamo dentro una giustizia-spettacolo in cui il sangue delle vittime diventa background per il reality giudiziario, e la vita degli imputati, colpevoli o no, è solo carne da share. Il martello a coda di rondine? Il ritrovamento nel canale? L’attizzatoio? L’impronta 33? Tutti effetti speciali, lanciati come fossero in un trailer di un nuovo episodio su Netflix, poi dimenticati come post su Snapchat. Proprio così: la chiama “una società-Snapchat” che ingoia scandali e li rigurgita con l’hashtag sbagliato.

Ma il cuore del suo j’accuse è questo: la giustizia, quella vera, qui ha perso. Ha smarrito il senso, si è piegata ai teoremi, ha lasciato che le procure si facessero la guerra sulla pelle delle persone. E intanto, mentre le luci dei riflettori abbagliano, nessuno si chiede più se sia normale finire in prima pagina da innocenti. Capezzone lo urla forte: questa giustizia può colpire anche te. O me. O chiunque capiti sotto la ruota del tritacarne mediatico-giudiziario. Serve una riforma vera, dice. Serve dire basta a processi d’accusa eterni, a sentenze d’assoluzione che si possono appellare come se il “non colpevole” fosse solo una bozza. E serve un’idea diversa di civiltà: meno hype, più responsabilità. Perché, alla fine, Garlasco non è solo un caso. È uno specchio. E noi, sotto quei bengala, non stiamo facendo una gran figura.
