Giorgia Meloni intende giocare la carta della riforma in senso presidenziale dello Stato per annunciare la sua personalissima volontà di imporre una svolta istituzionale alla Repubblica nella forma maggiormente gradita alla coalizione di centro-destra maggioritaria in Parlamento e nel Paese. E anche alla luce del confronto con le forze di opposizione, è su questo sentiero che la maggioranza sembra volersi avviare anche a costo di arrivare alla conta referendaria che in passato (2006 e 2016) ha bocciato altre “grandi riforme”. Il capo del Governo gioca la carta più pesante, quella della svolta verso l’elezione diretta del capo dello Stato e il rafforzamento del ruolo dell’esecutivo nell’ordinamento. La svolta presidenzialista imporrebbe un netto cambio di direzione nei rapporti e negli equilibri interni al sistema-Paese. Ma come funzionano effettivamente il presidenzialismo e le sue varianti? Quali esempi prende come riferimento “io sono Giorgia” per il suo progetto riformatore? E quanto si può applicare al sistema italiano? Facciamo chiarezza.
Che cos’è il presidenzialismo
Un sistema presidenzialista puro vede la presenza di un capo dello Stato legittimato direttamente dalla volontà popolare, eletto dall’intero corpo elettorale e slegato completamente nel contesto dell’esercizio dei suoi poteri dal vincolo a una fiducia parlamentare. Il caso più noto, ovviamente, sono gli Stati Uniti. In tutti i sistemi presidenziali il capo dello Stato è eletto per un mandato prefissato e può essere revocato solo per gravi caratteristiche come l’attentato alla Costituzione e l’alto tradimento. Il presidenzialismo concentra nell’ufficio del capo dello Stato ampi poteri di discrezionalità nell’emettere decreti e promuovere l’iniziativa politica dell’esecutivo, ma non l’assoluta proprietà dell’iniziativa legislativa. Essa rimane in capo al Parlamento, ma risente indubbiamente delle priorità del governo. Nessun fallimento di un’iniziativa politica del Presidente, però, equivale a un voto di sfiducia paragonabile a quello che accade nei regimi parlamentari. E spesso il nodo fondamentale nella spartizione dei poteri è quello dei cosiddetti contrappesi, i check and balances: ad esempio, negli Usa, il Congresso non sfiducia il Presidente, ma quest’ultimo non può sciogliere la Camera dei Rappresentanti e il Senato.
Vantaggi e limiti del presidenzialismo
I fautori del sistema presidenzialista sostengono che la sua applicazione promuova la tendenza alla stabilità politica, aumenta la capacità di un leader di incarnare l’unità nazionale e permetta un sostanziale continuum tra amministrazioni, dato che la tendenza a scelte di rottura è calmierata dalla necessità di dover cercare il consenso tra un bacino elettorale il più ampio possibile. I critici del presidenzialismo, invece, mettono in conto il fatto che una tipologia di governo di questo tipo promuova l’emergere di uomini soli al comando e possa in casi problematici essere un vulnus per la tenuta democratica di sistemi in cui al potere del presidente non esistano adeguati contrappesi. Cosa che spesso in sistemi formalmente presidenziali si è effettivamente manifestata.
Dove è in vigore il presidenzialismo
Il presidenzialismo più noto, e storicamente di successo, è quello degli Usa, che lo applicano dalla nascita della Costituzione nel 1789. In prospettiva, poi, a applicare il regime presidenzialista è tutta la fascia di Paesi delle Americhe continentali, eccezion fatta per il Canada. Dal Messico all’Argentina, sono presidenziali e eleggono il Presidente alle urne i Paesi dell’America Latina, in cui però l’assenza di contropoteri e il ruolo decisivo dell’esercito ha promosso spesso l’involuzione democratica. Lo stesso vale per quanto riguarda diversi Paesi dell’Africa centrale e meridionale che sono formalmente repubbliche presidenziali. Angola e Camerun sono esempi di Paesi in cui il presidenzialismo di fatto copre regimi monocratici, e lo stesso vale per le repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale, la Bielorussia e l’Azerbaijan. Il più giovane dei presidenzialismi è invece quello turco promosso nel 2017 da Recep Tayyip Erdogan.
Il semipresidenzialismo alla francese, vero obiettivo di Meloni?
Quando si parla di “presidenzialismo”, dunque, si parla di qualcosa molto diverso da quello che prorompe dalle parole di Meloni e del centrodestra. Spesso i regimi presidenziali non hanno la figura del premier, riassorbita da quella del Presidente, mentre nel sistema del futuro pensato dal governo si immagina una compresenza tra un presidente forte legittimato dalle urne e un parlamento. Parliamo di un sistema semipresidenziale in cui il capo dello Stato ha la maggior parte dell’azione esecutiva nelle sue mani ma la delega in parte nell’applicazione a un premier chiamato a un ruolo di braccio operativo e a ministri formalmente dipendenti da quest’ultimo. La differenza rispetto al presidenzialismo puro sta nel fatto che il primo ministro deve rispondere anche al Parlamento. Un capo dello Stato che si trovasse di fronte un Parlamento di forze politiche opposte dovrebbe dunque mediare per evitare che ogni suo governo finisca sfiduciato e costretto a cadere. Questo sistema ha chiaramente più attinenza col ruolo italiano di un capo dello Stato che è arbitro del gioco, tradizionalmente associato al Colle.
L’Italia è già un semipresidenzialismo di fatto?
Roma ha visto più volte gli inquilini del Quirinale entrare a gamba tesa nella vita politica del Paese. Tanto che soprattutto nell’era Napolitano e in quella Mattarella il fronte politico è apparso in più occasioni simile a un semipresidenzialismo di fatto. Dalla caduta di Berlusconi nel 2011 e dalla nomina di Mario Monti a capo del governo il Quirinale non ha giocato in primo luogo la partita politica ma imposto una svolta radicale: la perimetrazione del perimetro entro cui il pallone poteva muoversi. Tra vincoli formali (il rifiuto di ministri sgraditi o il rinvio di leggi ritenute rischiose per i conti pubblici) e un sostanziale ruolo di garanzia dell’appartenenza italiana a Ue e Nato il Quirinale è stato di fatto il garante della continuità dello Stato. In un contesto in cui i premier non erano dimezzati nel potere, ma avevano un sentiero di movimento ben preordinato. Il governo Draghi è stato l’apoteosi di un sistema che ha visto un esecutivo “del Presidente” remare nella stessa direzione e sotto l’attenta supervisione del Colle. La presenza di un potere informale tanto ampio pone grandi dubbi sulla tenuta di un’eventuale modifica di sistema fatta a colpi di norme e cavilli. E anche la Grande Riforma di Meloni dovrà guardarsi con la situazione di fatto. Che dice come l’Italia sia in larga misura già avviata, senza cambi formali, al semipresidenzialismo.