Tutte le strade di Roma portano al Vaticano. A quei prelati biondi, belli, alti, o di colore, altrettanto modelli, attori, influencer potenziali. Li noto ogni volta che passo da quelle parti. La legione straniera del clero: venuti da tutto il mondo, vestiti di tessuti sgargianti, oltre che pregiati, e soprattutto sicuri di sé e del proprio charme. Diplomatici della fede o confessori dei futuri santi: tutti loro si sono allenati allo specchio, anche solo simbolico, prima che su un altare. Hanno capito, già agli esordi, che non sarebbero diventati parroci di quartiere, esperti nella messa delle sei, ma protagonisti del grande teatro che è solo quello romano. Anche la salvezza si nutre di ambizione e postura. Gli umani — di entrambi i sessi — cercano da sempre segnali immediati che il corpo emana, a prescindere da noi: capelli, sguardo, movenze, statura, mascelle, spalle, quella incombente simmetria nei volti che ci farebbe captare l’eccelso codice genetico del partner per la sfornata degli eredi. Anche perché un tempo i pontefici portavano avanti relazioni, generando scandalo e leggenda: Alessandro VI, uno dei Papi rinascimentali più controversi, riconobbe senza imbarazzo la paternità di almeno sette figli, tra cui Cesare e Lucrezia Borgia. Tutto accadeva a Roma, la Caput Mundi in cui ancora oggi puoi incrociare per caso quel predestinato che tra qualche decennio diverrà Pontefice. L’ambizione talvolta porta gli eletti a bersi un caffè al bar, lì accanto a te, e li osservi e li senti. Quell’energia aleggia, in alcuni più che in altri. Fin da giovane quel qualcuno ha l’intenzione di fare carriera, sapendo che dovrà isolarsi ed elevarsi dal gruppo, sopravanzare sugli altri, solo perché qualcosa che è più forte di lui, che prescinde da qualsiasi enunciato darwiniano, perché quel richiamo arriva dal profondo e spinge ad andare avanti e importi sugli altri. Non è un giudizio: in ogni aggregazione umana, alcuni decidono prima degli altri di voler emergere e comandare.

Ma qui si tratta di ambizione in veste talare, di ciò che di eterno il comune mortale respira passeggiando attorno al Vaticano: un acquario millenario in cui non solo presenza e carisma contano più delle preghiere. In quell’oasi di marmo - che vista da fuori emana da sempre fascino, mistero e allusione - si consumano riti che prevaricano ogni futile modernismo. È lo Stato più antico al mondo, con più di duemila anni di esistenza. Significa anche che per ascendere nella gerarchia ecclesiastica, tu debba essere prima di tutto intelligente, colto, capace e scaltro. Cosa che non si riscontra così facilmente nelle altre gerarchie: pensiamo alla politica, ai tanti improvvisati, cialtroni e sgrammaticati capipopolo che occupano ranghi di rilievo nel Parlamento di questo paradossale paese a forma di scarpa. Se nel '900 fossimo stati governati dalla Chiesa, oggi saremmo una nazione di alta fascia, influente nella diplomazia e non ai margini, dopo una guerra mondiale scatenata e persa malamente e leader che ciclicamente finiscono nelle barzellette. La storia parla chiaro, a prescindere dalle nostre inutili opinioni. Quello che accade dentro le mura vaticane è l’epitome di un sistema di selezione rigorosa ed efficiente.

E proprio in questi giorni si riunirà il Conclave per decidere chi succederà a Papa Francesco alla leadership e soprattutto se sarà in grado di raffigurarla: ovvio che non si eleggerà Mister Universo, ma carisma e bellezza avranno il loro peso. E si sceglierà il migliore, quasi di sicuro un uomo che ha vissuto o si è formato al Vaticano, come già accaduto a Karol Wojtyła, che da Cardinale aveva avuto rapporti costanti con Roma. E infatti parlava italiano, come anche il tedesco Ratzinger che, oltre a poter vantare un bel ciuffo bianco anche da anziano, era stato prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Lo stesso Bergoglio, pur avendo studiato in Argentina, trascorse periodi nella capitale, come gesuita e arcivescovo. Tre personalità che sono state preferite ad altri candidati altrettanto validi: e quindi, non solo promettenti teologi o pastori zelanti, ma umani dotati della presenza e del magnetismo necessari per essere accettati e soprattutto seguiti. Ovvero quel qualcosa che alimenta il carisma, una forza silenziosa che ha spesso preceduto e accompagnato l’ascesa dei migliori e che, nel contesto ecclesiastico romano, non è mai un incidente. E qui scatta il cortocircuito che tanti meno fortunati conoscono bene, se pensiamo a Napoleone, Tamerlano, Francisco Franco e Berlusconi e alla loro statura inferiore alla media. Chi è consapevole di un limite del proprio impatto fisico - prima ancora di avere qualcosa da dire - sviluppa una fame che non si sazia mai. E non stupisce che di solito questa voglia retroattiva di sedurre, vincere e farsi incoronare - nonostante il gap estetico - possa divorare loro il cuore: non si tratta solamente di fervore ideologico, ma del proprio vissuto da sempre in salita. La bellezza è sopra di noi e ci divide. Lo dimostra il bel Jude Law, in The Young Pope: la sua camminata da edonista che ha letto tutte le scritture, ma che preferisce parlare con Dio a torso nudo e che dice: “Io sono il nuovo Papa, io sono una star, io sono un miracolo.” Un’interpretazione in cui il magnetismo, la fisicità, la capacità di incarnare il mistero e la maestà del ruolo conta più delle parole. Fiction fino a un certo punto. È così che funziona la selezione naturale tra gli umani e tra le navate del Vaticano. E allora che vinca il migliore, che di solito è quello più bello.
