Giorgio Napolitano è morto, e con lui esce di scena un raro caso di figura politica capace di navigare, da protagonista, tra più Repubbliche. L’esponente della cosiddetta “estrema destra” del Partito Comunista, il “comunista preferito” di Henry Kissinger, capofila della componente amendoliana del gruppo parlamentare, ai tempi della Prima Repubblica è divenuto, nel tempo, il diesse tutto d’un pezzo che ha plasmato il centrosinistra della Seconda Repubblica e, soprattutto, il presidente della Repubblica che questo sistema ha iniziato, forse inconsapevolmente, a demolirlo. Assommando nel Quirinale prerogative quasi esecutive, tanto da farsi soprannominare “Re Giorgio”, Napolitano sarà per tutti l’uomo che spinse nel 2011 per la guerra in Libia e il disarcionamento di Silvio Berlusconi. Traditore per i suoi critici più feroci, salvatore della patria per gli europeisti più incalliti. È impossibile avere un giudizio univoco su Napolitano. Così come sarebbe difficile per chi ha vissuto da protagonista un secolo di storia italiana.
Un comunista napoletano alla corte di Togliatti
Nato nel 1925 a Napoli, Napolitano si formò giovanissimo nella palestra culturale dei Gruppi Universitari Fascisti, a cui si avvicinò diciottenne all’ingresso della Facoltà di Giurisprudenza della Federico II. Con la seconda guerra mondiale e la liberazione del capoluogo campano, Napolitano si avvicinò all’ala partenopea del Partito Comunista Italiana.
Il suo padrino politico fu Giorgio Amendola, importante esponente del Pci vicino a Palmiro Togliatti ma critico dell’impostazione del partito orientata a una notevole conformazione ai dettami socialisti dell’Unione Sovietica. Gli “amendoliani” si contraddistinsero nel Pci per uno strano ibrido politico: da un lato, erano aperti a una contaminazione tra la classe dirigente del partito e quadri tecnici esterni, dall’altro pur non ammirando l’idea del centralismo democratico (la regola del “Partito” con la P maiuscola come norma valida per tutti) non mancavano di ammirare il suo simbolo stesso, Iosif Stalin. Si rintraccia in questa mentalità quel substrato elitista che l’élite napoletana del Pci maturò a lungo e che Napolitano portò avanti per tutta la vita. Il futuro presidente della Repubblica entrò per la prima volta in Parlamento nel 1953. Fu eletto alla Camera col Pci e avrebbe mantenuto il suo seggio fino al 1996, eccezion fatta per una breve parentesi tra il 1963 e il 1968.
Le posizioni politiche tra Pci e Pds
Napolitano dopo un iniziale sostegno alla disciplina di partito (nel 1956 sostenne la linea pro-sovietica sull’Ungheria) in seguito alla morte di Palmiro Togliatti nel 1964 iniziò a essere un esponente “conservatore”. A suo avviso il Pci doveva sposare il moderatismo, cercare la sintonia per un fronte di governo con i socialisti e i laici e, soprattutto, chiudere la porta in faccia ai movimenti. Napolitano, poco più che quarantenne, fu il nemico numero uno del Sessantotto in seno al Pci.
Tra il 1969 e il 1975, Giorgio Napolitano si occupòprincipalmente della politica culturale del Partito Comunista Italiano. Nel 1976 pubblicò un libro con Eric Hobsbawm, che ebbe un certo successo e viene tradotto in oltre dieci paesi. Durante la "solidarietà nazionale" (1976-79), Napolitano fuportavoce del partito nei rapporti con il governo Andreotti.
In quegli anni, Napolitano svolse attività all'estero, tenendo conferenze in Regno Unito, Germania e Stati Uniti. In particolare, nel 1978 è il primo dirigente del Pci a ricevere un visto per gli Stati Uniti, dove tenne conferenze e incontrò importanti esponenti politici e accademici. Tra cui, appunto, il citato Kissinger.
In politica interna, Napolitano fu uno degli esponenti storici della corrente di destra del Pci, ispirata ai valori del socialismo democratico. Negli anni di maggior scontro interno, la corrente di Napolitano venne definita "migliorista", un termine coniato dagli avversari con una certa accezione dispregiativa. Ma Enrico Berlinguer, segretario del partito tra fine anni Settanta e inizio Anni Ottanta, non ruppe mai con lui. Nel 1979, candidò Altiero Spinelli al Parlamento europeo, sancendo l'orientamento europeista del Pci proprio su suggerimento di Napolitano, che in quei tempi condannava l'invasione sovietica dell'Afghanistan, distanziandosi ulteriormente dall'Unione Sovietica. Sarebbe stato il preludio al ruolo svolto da Napolitano nella svolta della Bolognina dopo il crollo del Muro e nella transizione dal bolscevismo alla socialdemocrazia. Napolitano sposò convintamente la Nato, l’ordine liberale, la globalizzazione. Da “estrema destra” del Pci divenne portavoce di una sorta di “estrema sinistra” del sistema neoliberista.
L’ascesa al Colle
Con il Partito Democratico della Sinistra Napolitano ascese a protagonista delle dinamiche nazionali. Giorgio Napolitano fu eletto nel 1992 presidente della Camera dei Deputati e guidò Montecitorio durante la "legislatura di Tangentopoli", si distinse per la sua fermezza nel difendere le istituzioni, senza andare allo scontro con la magistratura ma provando a evitare la “gogna” del giustizialismo nelle istituzioni. In particolare, il 2 febbraio 1993, un ufficiale della Guardia di Finanza si presentò a Montecitorio con un ordine di esibizione di atti relativi ai bilanci dei partiti politici. Napolitano ordinò al segretario generale della Camera di opporre l'immunità di sede, impedendo alla forza pubblica di accedere agli atti.
D’altro canto, il 6 maggio 1993, Napolitano convocò la Giunta per il Regolamento e dispose che le deliberazioni della Camera sulle autorizzazioni a procedere contro i politici indagati fossero votate in maniera palese, anziché segreta.
Queste decisioni furono molto apprezzate dall'opinione pubblica, che in quel periodo era particolarmente scettica nei confronti delle istituzioni. Napolitano si scontrò anche con Bettino Craxi, leader del Partito Socialista Italiano. Nel processo Cusani, Craxi accusò Napolitano di aver avuto conoscenza delle tangenti che il PCI riceveva dall'Est.
Nel 1996, Napolitano fu nominato ministro dell'Interno dal governo Prodi. Come primo ex comunista a ricoprire questa carica, propose la legge Turco-Napolitano, che istituisce i centri di permanenza temporanea per gli immigrati clandestini e fu tra i promotori del blocco navale varato dal governo di centrosinistra sull’Albania. Nel 1996 lasciò la Camera a 71 anni per candidarsi a Europarlamentare nel 1999, risultando tra i promotori dell’elezione di Romano Prodi alla guida della Commissione Ue. Nel 2005 Carlo Azeglio Ciampi lo nominò Senatore a vita. L’anno dopo, la maggioranza di centrosinistra che sosteneva proprio il secondo governo Prodi lo elesse al Quirinale.
Gli anni del Colle tra sfide e controversie
Napolitano ricoprì la carica per quasi nove anni, fino a inizio 2015. Da presidente ha presieduto ai 150 anni dell’Unità d’Italia nel 2011, anno chiave della sua presidenza. Quell’anno Napolitano ha assunto la posa da “falco” nei confronti del quarto governo di Silvio Berlusconi. La cui crisi fu gestita con grande personalismo dal capo dello Stato, divenuto in quella fase il garante dei rapporti internazionali dell’Italia. Napolitano trattò con Nicolas Sarkozy la partecipazione di Roma alla guerra di Libia e con le istituzioni europee preparò il terreno per la sostituzione del Cavaliere nominando Mario Monti senatore a vita prima e premier poi nel novembre 2011.
Sostenitore del vincolo esterno e del rigore, Napolitano cambiò la presidenza della Repubblica: da rappresentante dell’Italia unita di fronte al mondo, con lui il Quirinale divenne rappresentante del mondo di fronte all’Italia. Punto di convergenza degli interessi di mercati finanziari, titolari del debito pubblico e cancellerie desiderose di perimetrare l’Italia in un terreno di gioco ben definito. Ironia della sorte, il presidente che la sinistra criticava perché troppo accomodante col Cav nella promulgazione delle leggi divenne il suo “campione” in quella fase di crisi. L’interventismo nelle istituzioni fu il marchio distintivo del ruolo del Colle dopo le elezioni del 2013: dapprima, Napolitano operò un palese contrasto, spesso esplicitato, al populismo del Movimento Cinque Stelle. In seguito, spinse per la sostituzione tra Enrico Letta e Matteo Renzi al governo nel 2014, spingendo poi con diverse esternazioni la riforma della Costituzione (bocciata il 4 dicembre 2016) in nome di premierato forte, accentramento delle prerogative sull’esecutivo e abolizione del Senato. In mezzo, la rielezione col sostegno di Partito Democratico, Popolo della Libertà e sinistra nel contestato voto per il Colle del 2013, che ha inaugurato la torsione “papale” dei capi dello Stato poi proseguita da Sergio Mattarella.
Le controversie
Lasciato il secondo mandato dopo soli due anni nel 2015, quando aveva 90 anni, Napolitano si è gradualmente ritirato dalla vita pubblica complici le declinanti condizioni di salute. Morto quasi centenario, il primo presidente della Repubblica post-comunista della Storia ha anche lasciato dietro di sé diverse controversie di portata non secondaria
Poco nota è ad esempio la vicenda con cui nel 1974 Napolitano, pur in rotta con l’Unione Sovietica, diffidò il Pci dal dare eccessiva visibilità a Aleksandr Solzenicyn, lo scrittore dissidente fuggito dall’Urss e che con “Arcipelago Gulag” avrebbe dato visibilità all’arcipelago concentrazionario sovietico. Nel 1991 fu criticato, invece, all’interno del Pci per una visita autonoma compiuta in Israele ai tempi della Guerra del Golfo, ritenuta eccessivamente caratterizzante per una formazione spesso equilibrata sui temi mediorientali.
Da ministro dell’Interno fu fortemente criticato per non aver sorvegliato attentamente Licio Gelli, fuggito all’estero nel 1998 dopo la condanna definitiva per associazione a delinquere. Dieci anni dopo, da capo dello Stato, Beppe Grillo lo attaccò sul suo blog per aver firmato il “Lodo” che prendeva il nome dal Ministro della Giustizia di Berlusconi, Angelino Alfano. La legge fu ritenuta un esempio di norma ad personam pro-Berlusconi in quanto stabiliva che i processi dedicati ai soggetti che “rivestono la qualità di Presidente della Repubblica, di Presidente del Senato della Repubblica, di Presidente della Camera dei deputati e di Presidente del Consiglio dei ministri sono sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione”.Nel 2009, invece, fu Antonio Di Pietro a ritenere “vile” la firma di Napolitano sullo scudo fiscale. Il presidente quell’anno si scontrò con la maggioranza e l’opinione pubblica cattolica sul caso di Eluana Englaro, rifiutando di dare via libera al decreto del centro-destra che imponeva l’alimentazione forzata.
Il caso Mancino
Nel 2013, la Procura di Palermo intercettò casualmente delle conversazioni telefoniche tra l'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e Nicola Mancino, ex ministro dell'Interno. Le intercettazioni erano state autorizzate nell'ambito di un'indagine su Mancino, accusato di falsa testimonianza nel processo sulla trattativa Stato-Mafia.
Napolitano, ritenendo le intercettazioni irrilevanti per le indagini, inviò una richiesta di conflitto d'attribuzione alla Corte costituzionale. La richiesta era finalizzata a impedire che le intercettazioni fossero rese pubbliche, con il rischio di danneggiare la reputazione del presidente della Repubblica.
La Corte costituzionale, con sentenza n. 1/2013, confermò la tesi di Napolitano. La Consulta stabilì che le intercettazioni non potevano essere utilizzate in un'udienza stralcio, in cui gli avvocati delle parti in causa avrebbero potuto ascoltare le conversazioni. La Corte dispose invece che la distruzione della documentazione delle intercettazioni dovesse avvenire ex art. 271, comma 3, c.p.p., senza la necessità di fissare un'udienza camerale.
La vicenda suscitò un ampio dibattito politico e mediatico. Alcuni esponenti politici e legali, come Valerio Onida ed Eugenio Scalfari, appoggiarono la scelta di Napolitano, ritenendola necessaria per tutelare la sua indipendenza. Altri, come Gustavo Zagrebelsky e Franco Cordero, criticarono aspramente Napolitano, accusandolo di volersi arrogare poteri eccessivi.
La sentenza della Corte costituzionale fu un importante precedente per la tutela della riservatezza delle comunicazioni del presidente della Repubblica. La Consulta ha stabilito che le intercettazioni telefoniche del presidente della Repubblica possono essere utilizzate solo in casi eccezionali, quando ciò è necessario per tutelare interessi superiori. Il caso suscitò sicuramente molto clamore perché mostrò, forse definitivamente, la natura estremamente divisiva di una figura altamente istituzionale come quella di Napolitano. Presidente che ha segnato una e più epoche. Ma la cui eredità, perlomeno al Colle, è stata sicuramente problematica da giudicare storicamente. Essendo un simbolo di un sistema fragile in cui, come perno del sistema, prosperano poteri consolidati e capaci di sopravvivere alla caducità del tempo, quale quello del Quirinale. A costo di far apparire agli occhi della popolazione fragile lo stesso sistema democratico.