In Iran la tensione è altissima: il Parlamento (o meglio, il Consiglio supremo per la sicurezza nazionale) discute la possibile uscita dal Trattato di non proliferazione nucleare, Israele ha intensificato gli attacchi mirati contro obiettivi strategici e l’economia del Paese resta soffocata dalle sanzioni internazionali. Abbiamo chiesto a Masoud Kazemi di aiutarci a capire cosa sta accadendo: giornalista e attivista per i diritti umani, conosciuto in Iran per le sue inchieste sulla corruzione e per aver pagato con il carcere le denunce contro il regime. Con la sua esperienza diretta di repressione e con lo sguardo critico di chi conosce a fondo la politica iraniana, ci ha raccontato quali sono le reali dinamiche dietro le scelte sul nucleare, la debolezza della leadership di Teheran e il malcontento crescente della popolazione. Per Kazemi, il consenso interno è tutt’altro che compatto: "La grande maggioranza degli iraniani non sostiene la linea dura sul nucleare. Le proteste e la scarsa partecipazione elettorale mostrano che la società non appoggia il regime e desidera invece cambiamenti radicali, persino la fine della Repubblica islamica". Sul fronte della sicurezza, il giornalista denuncia la vulnerabilità del Paese agli attacchi israeliani: "Con la Guerra dei 12 giorni Israele ha preso il controllo totale dello spazio aereo iraniano, dimostrando la debolezza delle difese. Questo significa che un nuovo attacco non sarebbe né rischioso né costoso per Tel Aviv". Un regime che sopravvive anche grazie all’inerzia delle potenze internazionali: "Il timore principale degli Stati Uniti è cosa accadrebbe dopo la caduta del regime: caos, instabilità e conseguenze sul mercato energetico. Se avessero la certezza di un’alternativa credibile, allora sì, sosterrebbero la caduta del governo iraniano".

Il Parlamento iraniano sta discutendo il ritiro dal Trattato di non proliferazione nucleare. Quanto questa mossa è una reale decisione politica e quanto invece una pressione strategica sull’Occidente?
Il Parlamento iraniano in realtà non gioca un ruolo molto influente nella politica. Decisioni importanti come il ritiro dal TNP non sono di sua competenza, ma vengono prese dal Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale sotto la supervisione e l’approvazione di Ali Khamenei, la Guida Suprema. Il fatto che alcuni parlamentari, soprattutto della fazione più radicale, propongano simili iniziative è più un atto mediatico che un’azione politica reale. Se il Consiglio Supremo e Khamenei decidessero, allora la proposta verrebbe attuata; altrimenti rimane solo propaganda interna e strumento di pressione verso l’Occidente. In generale, non credo che l’Iran si ritirerà dal TNP nelle condizioni attuali: sembra voler restare su una via di mezzo, né massimo confronto né pieno coinvolgimento.
Se l’Iran dovesse davvero uscire dal TNP, quali sarebbero le implicazioni per la sicurezza regionale e per i rapporti con potenze come Russia e Cina?
Non credo che l’Iran si ritirerà davvero dal TNP. Ma se accadesse, per l’Occidente significherebbe che Teheran punta a sviluppare armi nucleari. L’esperienza della Corea del Nord è chiara: quando si ritirò dal trattato, costruì la bomba. Ma la situazione dell’Iran è diversa. Pyongyang era protetta dall’area di influenza cinese e l’Occidente non poteva intervenire militarmente. Inoltre aveva già l’infrastruttura pronta. L’Iran, invece, confina con 13 paesi, è più esposto e ha già subito attacchi militari, anche se limitati. Un suo ritiro dal TNP potrebbe portare a una grande guerra. Nemmeno Russia e Cina vogliono questo scenario: non desiderano che l’Iran dia un pretesto per un attacco su larga scala, dalle conseguenze imprevedibili.
Considerando le gravi difficoltà economiche dovute alle sanzioni, quanto gli iraniani sostengono davvero una linea dura sul nucleare? E qual è l’umore generale della popolazione nei confronti del regime di Ali Khamenei?
I problemi economici in Iran sono molto gravi. Se verranno reintrodotte le sanzioni Onu tramite il meccanismo dello “snapback” (cioè la reintroduzione delle sanzoni, nda), la situazione peggiorerà ulteriormente. La verità è che la grande maggioranza degli iraniani non sostiene la linea dura sul nucleare. Lo hanno dimostrato chiaramente in varie elezioni: nel 2013 votarono in massa Hassan Rouhani, che prometteva dialogo con l’Occidente, e nel 2024 hanno eletto Masoud Pezeshkian, che voleva risolvere la questione nucleare con un accordo. Nonostante la scarsa affluenza dovuta alla sfiducia generale, la narrativa del compromesso è risultata vincente. Inoltre, proteste diffuse e bassa partecipazione elettorale mostrano che la maggioranza della società non sostiene il regime e tende al cambiamento, persino alla caduta del sistema. La gente né appoggia la linea dura sul nucleare né vuole la prosecuzione di questo governo. Desidera invece cambiamenti radicali e persino la fine della Repubblica islamica.

Dopo i recenti attacchi mirati attribuiti al Mossad, quanto è profonda l’infiltrazione dei servizi israeliani nelle strutture di sicurezza iraniane?
L’influenza di Israele, in particolare del Mossad, in Iran non è nuova: esiste da anni. Basti pensare all’assassinio nel 2020 di Mohsen Fakhrizadeh, capo del programma nucleare militare, al furto di documenti nucleari e all’uccisione di vari scienziati. Ma l’operazione della cosiddetta “Guerra dei 12 giorni”, nella notte del 12 giugno, in cui sono stati uccisi circa 30 alti comandanti militari e diversi scienziati, ha mostrato più che mai la profondità di questa infiltrazione. Persino una riunione del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale, con i vertici dei tre poteri dello Stato, è stata colpita. Molti funzionari ammettono che non osano parlare liberamente nei loro incontri, per paura di microspie, e si scambiano opinioni scritte su fogli di carta. In sintesi: l’influenza israeliana era nota da anni, ma con la Guerra dei 12 giorni è apparsa in tutta la sua ampiezza. Oggi persino i vertici del regime riconoscono che l’infiltrazione è molto profonda.
Alcuni analisti sostengono che il rischio di un nuovo attacco israeliano aumenti con l’inasprimento della crisi nucleare. Quanto è concreta questa possibilità e come si prepara Teheran?
Il rischio di un nuovo attacco israeliano è reale, anzi più alto di prima. L’attacco della Guerra dei 12 giorni ha infranto il “tabù” dei raid militari in Iran. Israele, in soli tre giorni, ha preso il controllo totale dello spazio aereo iraniano, dimostrando la debolezza delle difese iraniane. Nessun aereo israeliano è stato colpito, mentre hanno sorvolato persino Teheran. Questo dimostra che un attacco non è né rischioso né costoso per Israele o gli Usa. Se scatterà il meccanismo dello snapback e verranno ripristinate le sanzioni Onu, Israele avrà anche maggiore legittimità per colpire. L’Iran, limitato da sanzioni e senza veri partner strategici regionali, ha scarse possibilità di rafforzare le proprie difese. Ha solo i missili come deterrente. Se ci fosse un conflitto più ampio di quello dei 12 giorni, l’Iran subirebbe perdite ben più pesanti.
Perché, secondo lei, gli Stati Uniti non hanno mai rovesciato il regime iraniano? Ci sono stati momenti in cui ci sono andati vicini o non è mai stata una possibilità concreta?
Il timore principale degli Stati Uniti è cosa accadrebbe dopo la caduta del regime. Hanno paura del caos, dell’instabilità regionale e delle ripercussioni sul mercato del petrolio ed energia, vitali per Usa ed Europa. Inoltre la Russia non vuole perdere un alleato come la Repubblica islamica. L’Iran non è paragonabile a Iraq o Afghanistan: ha molte più risorse e capacità. La caduta del regime avrebbe conseguenze enormi. Gli Usa quindi esitano, perché non esiste un’alternativa credibile in grado di garantire stabilità dopo. Ci sono stati momenti in cui il regime è stato vicino alla caduta, ad esempio durante la "Guerra dei 12 giorni", quando un attacco al Consiglio Supremo avrebbe potuto decapitare la leadership. Se fosse riuscito, il collasso sarebbe stato probabile. Ma non è andata così, e il regime si è salvato. In sintesi: se Usa e Israele avessero la certezza che un cambio di regime non danneggi il mercato energetico e ci fosse un’alternativa solida, allora sì, sosterrebbero la caduta del governo iraniano.

Si è parlato di un presunto accordo segreto tra Ali Khamenei e Donald Trump per evitare la sua eliminazione. Quanto è credibile questa ipotesi e cosa avrebbe potuto barattare l’Iran con gli Stati Uniti?
Alcuni media israeliani hanno ipotizzato un accordo segreto tra Khamenei e Trump, ma restano solo speculazioni. Non ci sono prove certe. Alcune fonti hanno persino parlato di un piano israeliano per assassinare Khamenei che Trump avrebbe fermato, ma non vi sono conferme. Se l’attacco al Consiglio Supremo fosse riuscito, l’eliminazione di Khamenei sarebbe stata probabile. Ma poiché l’operazione non è andata a buon fine, anche il piano è stato interrotto. Questo però non significa che Israele rinuncerà in futuro a tentativi simili.
Qual è oggi il ruolo dell’Iran nella guerra tra Israele e Palestina?
Prima del 7 ottobre e dell’attacco di Hamas, l’Iran aveva un ruolo importante, sostenendo Hamas e Hezbollah con aiuti finanziari, politici e militari. Questo accresceva molto il suo peso nei conflitti regionali. Ma dopo le pesanti perdite subite da questi gruppi, incluso l’uccisione di loro leader, l’influenza iraniana si è ridotta. Oggi il bilanciamento delle forze favorisce Israele, e la capacità di Teheran di incidere sul conflitto è molto inferiore.
I giovani iraniani, che costituiscono gran parte della popolazione, perché non riescono a ribellarsi? Quali sono gli ostacoli principali?
Negli ultimi 20 anni ci sono state varie rivolte: nel 2009, nel 2017, nel 2018, nel 2019 e infine nel 2022 con il movimento “Donna, Vita, Libertà”. Tutte sono state represse duramente, con centinaia o migliaia di morti e il blocco totale di internet. Oltre alla violenza della repressione, manca un’opposizione unita e credibile. I gruppi anti-regime litigano tra loro, accusandosi a vicenda. Dopo il 2022, queste divisioni hanno creato sfiducia e scoraggiamento. Oggi la gente è disillusa, perché non vede una forza coesa e affidabile in grado di guidare un cambiamento.
Che ruolo ha l’Italia nei rapporti con l’Iran? E il governo di Giorgia Meloni potrebbe fare qualcosa per migliorare il clima in Medio Oriente?
L’Italia non ha un passato negativo verso gli iraniani, quindi non è percepita come un nemico. Molti si aspettano che Roma offra più cooperazione e sostegno. Più che dichiarazioni simboliche, servono azioni concrete: sanzioni mirate contro individui e istituzioni che violano i diritti umani, dichiarare i Pasdaran come organizzazione terroristica, sostenere giornalisti e attivisti civili, fare pressione politica e diplomatica. Anche prese di posizione chiare a favore delle donne e delle libertà civili avrebbero un impatto reale senza colpire la popolazione.
Ha seguito il caso della giornalista italiana Cecilia Sala? Oggi al Corriere della sera ha raccontato la sua detenzione.
Sì, ho seguito il caso. Cecilia Sala è diventata vittima indiretta dell’arresto di Mohammad Abedini Najafabadi a Milano, il 16 dicembre 2024. Abedini era stato fermato su richiesta degli Stati Uniti, accusato di trasferire tecnologia per droni all’Iran, usata poi in un attacco letale contro soldati americani in Giordania. Dopo la detenzione di Sala, l’Italia è stata costretta a rilasciare Abedini per ottenerne la liberazione. Questo è un chiaro esempio di “diplomazia degli ostaggi”. Da oltre quarant’anni l’Iran ricorre a questo metodo: quando un suo agente viene arrestato all’estero, prende in ostaggio cittadini occidentali con accuse false per scambiarli. Purtroppo, questa strategia criminale ha dato spesso risultati al regime.
