La tradizione degli oppressi, scriveva Walter Benjamin nelle sue Tesi di filosofia della storia, ci insegna che lo stato di emergenza in cui viviamo è la regola, e che per migliorare “la nostra posizione nella lotta contro il fascismo” bisogna assumersi il compito di creare un vero stato di emergenza. Può sembrare un sofisma, ma la tesi di fondo è che la sola idea di progresso, se trasformata in ideale da contrapporre alla tradizione e svuotata del proprio senso storico, rischia di segnare la fine di ogni reale progressismo. Le Tesi risalgono al secolo scorso ma possono tornare utili per spiegare ciò che sta succedendo in Palestina. L'idea shock della Gaza Riviera pensata da Trump, utopia distopica o distopia utopica, in effetti si gioca tutta su questa contrapposizione multipla. Da un lato, due idee di progresso: quello etico, che vuole Gaza libera e in mano ai palestinesi, e quello realista, cinico ed economico di Trump, che a sua volta si rifà a un'idea di tradizione storica: quando c'è una guerra, chi vince fa il cazzo che gli pare. E ci guadagna pure. Il Washington Post ha rivelato l’esistenza di un piano riservato in discussione all’interno dell’amministrazione Trump e di alcuni partner internazionali per la ricostruzione della Striscia di Gaza in una prospettiva radicalmente diversa dall’attuale. Al centro della proposta ci sarebbe la trasformazione del territorio in una sorta di “Riviera del Medio Oriente”: un polo turistico di lusso affiancato da infrastrutture manifatturiere e tecnologiche ad alta intensità di capitale, con resort balneari, grattacieli residenziali, impianti per veicoli elettrici e data center.

Secondo i documenti visionati dal quotidiano, la gestione della Striscia verrebbe affidata per almeno dieci anni a un’amministrazione fiduciaria sotto controllo statunitense. Il piano, denominato Great Trust (Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation Trust), prevede incentivi economici per incoraggiare i residenti ad abbandonare volontariamente l’area: 5.000 dollari in contanti, quattro anni di copertura per l’affitto in un altro Paese e un anno di approvvigionamenti alimentari. Stimando una popolazione di circa due milioni di abitanti, dato del 2023 adesso sicuramente diminuito, tra morti e rifugiati, viene fuori una spesa di 10 miliardi. Sembra molto, ma è comunque un investimento, di questo si tratterebbe, ridicolo per un Paese come gli Stati Uniti. Secondo il piano, chi possiede terreni riceverebbe in cambio dei diritti di riqualificazione un token digitale, utilizzabile per finanziare un nuovo insediamento altrove o riscattabile in futuro in appartamenti situati nelle sei-otto “città intelligenti alimentate dall’intelligenza artificiale” che il progetto ipotizza di costruire nella stessa Gaza. La logica sottesa al piano è esplicitamente economica: ogni partenza individuale ridurrebbe i costi di gestione del trust di circa 23.000 dollari rispetto alle spese necessarie per garantire alloggi temporanei e servizi di “supporto vitale” ai residenti rimasti. Gli ideatori del progetto, tra cui alcuni israeliani già coinvolti nella Gaza Humanitarian Foundation, hanno stimato che un investimento iniziale di 100 miliardi di dollari potrebbe generare un ritorno quasi quadruplicato nell’arco di dieci anni. Non è chiaro se questa proposta corrisponda fedelmente alla visione che Donald Trump avrebbe discusso recentemente alla Casa Bianca insieme a figure come l’ex premier britannico Tony Blair, il segretario di Stato Marco Rubio, l’inviato speciale Steve Witkoff e Jared Kushner. Tuttavia, secondo fonti vicine alla pianificazione, i pilastri del progetto sono stati pensati per incarnare la visione del presidente di una “Riviera del Medio Oriente”. Un elemento cruciale, osserva il Washington Post, riguarda il modello di finanziamento: a differenza delle iniziative umanitarie attualmente operative, il Great Trust non si baserebbe su donazioni governative ma su capitali pubblico-privati destinati a grandi progetti infrastrutturali, con la prospettiva di garantire profitti significativi agli investitori.

Tutto bene? A livello etico, non proprio. Ma c'è chi, come Andrew Roberts, storico e giornalista britannico, ha sottolineato un semplice fatto: “Mentre la comunità internazionale urla di indignazione per le dichiarazioni di Donald Trump e le loro implicazioni sulla sovranità degli abitanti di Gaza e sul diritto di Hamas a governare lì, la storia è dalla parte del presidente”. In che senso? Le critiche internazionali al progetto di Donald Trump per la cosiddetta “Riviera di Gaza”, spiega Roberts, si fondano in gran parte sull’assunto che i palestinesi conservino piena sovranità sul territorio e il diritto di determinare il proprio governo, nonostante l’attacco del 7 ottobre 2023 e la successiva risposta militare israeliana abbiano profondamente alterato le condizioni politiche e giuridiche della Striscia. Un esame storico comparativo suggerisce che popoli e governi responsabili di aggressioni non provocate, una volta sconfitti, abbiano quasi sempre perso sia la sovranità sia la capacità di autogovernarsi. Realisticamente: è sempre andata così. Il vero stato di emergenza, per tornare a Benjamin, è la norma. Gli esempi spaziano dalle repubbliche boere, annesse dall’Impero britannico dopo la guerra del 1899-1902, alla Germania nazista e al Giappone imperiale dopo la Seconda guerra mondiale, fino alla giunta argentina dopo la sconfitta nelle Falkland e al regime di Saddam Hussein in seguito all’invasione del Kuwait. In tutti questi casi, la leadership dello stato aggressore non sopravvisse politicamente e i popoli coinvolti subirono dure trasformazioni, inclusi trasferimenti di popolazione e amministrazioni esterne. Anche i tedeschi dei Sudeti, cacciati dalla Cecoslovacchia dopo il 1945, o i numerosi gruppi etnici spostati nel contesto della fine della Seconda guerra mondiale e delle transizioni geopolitiche degli anni Quaranta, dimostrano come i trasferimenti forzati, per quanto traumatici, siano stati una conseguenza ricorrente delle guerre. A differenza di altri popoli, che alla lunga hanno cercato di integrarsi nei nuovi contesti, i palestinesi sono rimasti intrappolati in una condizione di sospensione, anche a causa delle scelte delle proprie leadership e dell’utilizzo della questione rifugiati da parte di attori regionali come strumento politico contro Israele. Alla luce di tali precedenti, secondo lo storico inglese, l’idea che Gaza mantenga inalterata la propria sovranità dopo l’attacco del 7 ottobre appare, agli occhi dei sostenitori del piano Trump, poco fondata. In questa prospettiva, le accuse di “pulizia etnica” mosse contro le proposte di rilocazione contenute nel progetto appaiono iperboliche se confrontate con episodi storici come la Bosnia negli anni Novanta. La logica sottostante è che la sconfitta militare di Hamas, al pari di altre leadership aggressive nella storia, comporti inevitabilmente la perdita di sovranità e un ripensamento del destino della popolazione civile. E il fatto che poi, tradizione storica a parte, la sconfitta militare trapassi in genocidio, non vuol dire altro che il vero stato di emergenza è sotto gli occhi di tutti e che, come sempre, è la popolazione a subire le conseguenze più disastrose. Basterebbe soltanto rendersene conto.

