Indifferenza. Partiamo da questa parola. Anzi, no, partiamo da qualche anno fa. È una giornata di primavera, sto lavorando in casa, mi squilla il telefono. Sulla tastiera compare il numero della scuola dei miei figli. Ne ho quattro, e tutti hanno frequentato, due ancora la frequentano, la medesima scuola, il medesimo plesso. In quel momento ne ho tre lì, uno, Tommaso, oggi diciottenne, frequenta la terza media, due, Francesco e Chiara, gemelli, frequentano la prima elementare. Negli anni ricevere telefonate da quel numero è diventato un classico, quasi sempre rotture di palle. O qualcuno che ha la febbre o qualche acciacco, o qualcuno che ha fatto qualcosa che non doveva fare, noi genitori convocati per parlarne. Viste le età, e visto che Tommaso è rientrato a scuola proprio oggi dopo una settimana di influenza, suppongo sia una telefonata per avvisarmi che uno dei gemelli ha a sua volta la febbre, un residuo dell’inverno appena finito e del vivere a stretto contatto con chi la febbre ce l’ha già avuta. Invece no. È la vicepreside delle scuole medie che mi convoca, con urgenza, perché Tommaso ha fatto qualcosa di molto grave. Resto basito. Tommaso è in assoluto la persona più equilibrata e pacata del nostro nucleo familiare. Ordinato, preciso, autonomo, ha iniziato le elementari e dopo una settimana in casa gli sono piombati due gemelli, per intendersi, di lì il suo essere in grado di badare a sé stesso, seppur io e mia moglie non siamo mai stati disattenti nei suoi confronti. L’idea che abbia fatto qualcosa di estremamente grave, seppur sia in quella fascia di età del cazzo che risponde al nome di adolescente mi fa davvero trasecolare. Corro a scuola, avvisando mia moglie, che è in ufficio (siamo a prima del Covid, ora è quasi sempre di là, in studio, a fare smart working). Arrivo e ad accogliermi trovo la vicepreside con la professoressa di disegno. Tommaso, che è sempre andato molto bene a scuola, ha avuto i soli voti non eccellenti proprio in quelle materie che solitamente sono considerate, a volte anche a ragione, minori: disegno, tecnica e musica. Parlo di scuola, ovviamente. Mi siedo, palesemente preoccupato. Senza girarci molto intorno la vicepreside dice che nei bagni dei maschi è stata fatta una svastica con una scritta indecorosa sulla porta di uno dei gabinetti. Un atto gravissimo. La professoressa di disegno, in realtà di Arte, ma ci siamo capiti, ha studiato la grafia e ha riconosciuto quella di Tommaso. Sono sgomento. In casa, per ridere del suo essere così palesemente diverso da me, quando era all’asilo, per farvi capire il tipo, una volta mi ha chiesto “papà, perché porti i capelli lunghi e non ti vesti in giacca e cravatta come tutti gli altri?”, non per specificare il mio essere unico, quanto per sottolineare il mio essere diverso, con tono anche un po’ imbarazzato, in casa mi capita di chiamarlo “il nazista”, come sfottò, lui tutto preciso e ordinato, io punkeggiante, sempre sopra le righe, comunque fuori dagli schemi, ma l’idea che possa anche solo aver pensato di fare una svastica su una porta di un bagno è per me qualcosa di inaccettabile. Mi sembra assurdo, anche perché di carattere è riservato, direi pure poco coraggioso, l’idea di correre un rischio del genere fuori da tutto quello che gli appartiene, ma è soprattutto l’idea della svastica che mi agghiaccia, mio figlio e una svastica è qualcosa che mai avrei potuto pensare. Bofonchio qualcosa, non saprei dire neanche cosa. Dico che la cosa mi lascia sgomento, che mai avrei pensato, che mi sorprende, ma ciò nondimeno non intendo né sminuire né giustificare la cosa, che se così è stato si deve andare fino in fondo. Anche la professoressa d’arte è sorpresa, dice, perché non ce lo faceva. Il che non rende il tutto meno desolante. Poi lei, la professoressa, dice una cosa che, come in certe trame di certi film che prevedano un lieto fine, lo so ho spoilerato, fa cadere il discorso lì dove avrebbe dovuto sempre essere, in fondo alla turca che quella porta con su una svastica nasconde, perché dice “quando ieri di colpo è apparsa quella scritta…”. Non ricordo neanche cosa abbia aggiunto, perché l’ho interrotta con fare anche risoluto. Tommaso ha infatti avuto, appunto, l’influenza, e è tornato a scuola oggi, dopo una settimana passata a casa. “Siete sicuri sia stata fatta ieri?” chiedo. “Certo,” rispondono in coro, “prima le bidelle la avrebbero vista”. Quel che segue sono scuse dette a mezza bocca, giustamente imbarazzate per il clamoroso errore. Poi si è saputo chi è stato, ma credo di aver passato una delle mezzore peggiori della mia vita. Al punto che a lui, a Tommaso, la cosa ho avuto il coraggio di raccontarla solo recentemente, per pudore. Perché è vero che i figli sono altro da noi, ma una svastica, onestamente, non me la posso proprio immaginare. Certi messaggi abbiamo provato, io e mia moglie, a veicolarli negli anni, giorno dopo giorno, pur essere i figli delle variabili non necessariamente riconducibili alle nostre aspettative, credo che certi valori possano passare anche col codice genetico.
Arriviamo al 2023. Indifferenza, quindi. Un muro color nero antracite, forse proprio di antracite, sapessi cos’è esattamente l’antracite lo direi con più certezza, con su scritto, in lettere davvero cubitali “indifferenza”. Questa la prima cosa che si nota una volta entrati nel Memoriale della Shoah. È una giornata particolarmente limpida di dicembre, a Milano, e ci troviamo a pochi passi dalla Stazione Centrale. Abbiamo scoperto dell’esistenza del Memoriale della Shoah per caso, perché un paio di anni fa abbiamo usato una app di guide turistiche all’estero e, per motivi che onestamente mi sfuggono, questa app ha deciso di proporci una visita guidata alla città in cui abitiamo. Visita guidata che comprendeva, tra le altre cose, anche il Memoriale della Shoah, di cui ignoravamo l’esistenza, e che ha ovviamente attirato la nostra attenzione. Così, senza usare la app in questione che chiede una gabella su ogni prenotazione, abbiamo optato per un improbabile orario come le dieci di una domenica mattina, unico giorno nel quale si sarebbe pure potuti dormire un po’ di più, e siamo arrivati carichi di aspettative, ma più che altro incuriositi di capire cosa ci saremmo trovati di fronte. Sapevamo, pur non essendoci mai andati in ventisei anni di residenza a Milano, che c’era il Binario 21, quello dal quale durante la guerra sono partiti i treni diretti ai campi di sterminio, ma di questo memoriale, ripeto, non avevamo mai sentito parlare. La struttura che lo ospita si trova a qualche centinaio di metri a lato della facciata della Stazione Centrale, lungo via Ferrane Apporti, al punto che per arrivarci Google Maps suggerisce, giustamente, di scendere alla fermata della metro Caiazzo, non a Centrale. Lungo la fiancata della stazione, quindi, si trova questo ingresso in parte coperto da una vetrata, con una camionetta dell’esercito a stazionare di fronte, immagino per le recenti tensioni dovute alla guerra tra Israele e Hamas, a Gaza. Entriamo, e la prima cosa che ci colpisce, dicevo, è la scritta cubitale su un muro nero antracite. Non è vero. La prima cosa che ti colpisce è il contrasto tra la luce tersa, quasi abbagliante che si trova di fuori, il lato di via Ferrante Apporti è quello che volge verso est, quindi quello in cui il sole la mattina fa meglio il suo lavoro, e il buio pesto che si trova dentro, poche luci, spesso fioche, il grigio del cemento grezzo che costituisce buona parte delle pareti, dei pavimenti e del soffitto a fare il resto. Il muro scritto lo si nota, ma è talmente scuro che la scritta non l’ho proprio vista, la noterò uscendo, con la vista ormai abituata alla penombra. Andiamo verso la biglietteria, uso il plurale perché con me c’è mia moglie, sua l’idea di venire qui la domenica mattina presto, e uno dei nostri figli, il solo rimasto con noi in questo weekend, Francesco, dodici anni, andiamo quindi verso la biglietteria, prendiamo i biglietti a suo tempo prenotati e ci dirigiamo verso un punto indicatoci dalla cassiera, per arrivare al quale tocca fare un giro tortuoso su una sorta di scivolo verso l’alto, ovviamente giocato su tinte scure. Ci accoglie, con noi ci sono una trentina di persone, una guida che si rivelerà molto coinvolgente, donna, sui sessant’anni, piccola di statura. Inizia chiedendoci da dove veniamo, un po’, immagino, per rompere il ghiaccio, un po’ per giocarsi subito dopo il jolly della sorpresa, la sua sarà per tutto il tempo una narrazione molto empatica, dove ci verrà costantemente chiesto di fare uno sforzo di immaginazione a tratti doloroso, ma necessario. Capito che siamo praticamente di un po’ tutta Italia, direi un buon 9% di turisti, la guida ci dice di essere un architetto, ignoro se la parola architetto sia declinabile al femminile, e di essere di Ancona, come noi. Glielo diciamo, e per un attimo sembra lei quella sorpresa. In realtà il suo chiederci di dove siamo, precede una seconda domanda, se siamo mai arrivati a Milano in treno. Essendo buona parte dei presenti turisti, qui in gita, la risposta è totalmente affermativa. A questo punto la guida ci spiega che noi non siamo sotto la Stazione Centrale, che questo luogo oscuro che ora ospita il Memoriale della Shoah, cioè, non è qualcosa di paragonabile alle segrete, agli scantinati della Stazione. Siamo al piano terra della struttura, che in maniera del tutto originale presenta i binari dei treni al primo piano, detto anche piano nobile, come nelle costruzioni reali o borghesi. Quando infatti, ci spiega, un secolo fa si decise di rivedere l’idea della stazione di Milano, lanciando un concorso, l’architetto Stacchini propose questa soluzione molto originale, far arrivare i treni a un piano sopraelevato, inserendo il tutto in una struttura simmetrica, tipica dell’epoca fascista, con questa lunga tettoia che rendeva e tuttora rende la zona dei binari una via di mezzo tra uno spazio aperto e uno spazio indoor. L’idea di tendere all’alto, ci ha spiegato la guida, è tipica del periodo fascista, e era chiara matrice di una filosofia e ideologia che voleva l’Italia vincente, dominante, tesa appunto all’alto. Del resto, dirà sempre lei, Milano è la città che più di ogni altra, già ai tempi, guidava la locomotiva, metafora, italiana, il Pirellone a accogliere chi scendeva dai treni in città, la zona nuova di City Life e Gae Aulenti a rappresentare ancora una volta una novità sul piano urbanistico ancora oggi. Preso quindi atto che ci troviamo tutti al piano terra della stazione, la guida inizia a spiegarci esattamente dove siamo e perché ci troviamo esattamente qui. Il Memoriale della Shoah è recente, recentissimo.
Questo spazio è stato scoperto casualmente nel 1999, decisamente parecchi anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando un gruppo di ricercatori della Comunità di Sant’Egidio è entrato a curiosare in questa area della stazione rimasta a lungo inutilizzata, e ingombrata da una quantità incredibile di macerie proprio della guerra. Si è però presto capito, complici i racconti dei superstiti delle deportazioni ai campi di sterminio e di lavoro, che questo era il luogo nel quale avveniva, chiamiamolo così, l’imbarco dei prigionieri a quei campi indirizzati. Questa area, infatti, ai tempi era a beneficio delle Poste, proprio di fronte all’ingresso il medesimo architetto aveva ideato e realizzato il palazzo delle Poste Regie, ancora presente. Qui sotto, anche se so che siamo a piano terra, viste le tante volte che sono andato a prendere i treni qui sopra mi viene naturale parlarne come di un sotto, il buio della struttura a facilitarmi in questo errore, venivano caricati su carrozze presenti su binari morti le poste, quindi, ma anche gli animali e tutti i prodotti mercantili. Poi venivano spostati su un gigantesco carrello elevatore e innalzati al piano nobile, dove invece si imbarcavano le persone. A questo punto venivano impilate le carrozze a queste si aggiungeva una locomotiva, così da comporre un treno pronto a partire per la direzione stabilita. Bene, anzi, no, male, malissimo, nel 1943 questa parte della stazione, al centro di Milano, perché nella grandeur fascista c’era pure l’idea di far arrivare i treni esattamente al centro cittadino, ecco, nel 1943, a partire dall’infausta data del 6 dicembre, qui oltre che le poste, le mercanzie e gli animali, si sono cominciati a caricare nei medesimi carri anche gli ebrei, diretti di volta in volta ad Auschwitz a Birkenau e in altri campi di sterminio o di lavoro. Il tutto, appunto, nell’indifferenza cittadina, che complice il trovarsi di questo spazio non esattamente dove arrivavano o partivano le altre persone a bordo dei treni, ha finto a lungo di non sapere cosa qui avvenisse. Questo nonostante una volta riempite le carrozze, altrimenti adibite al trasporto animale, le grate delle finestrelle atte a far respirare i circa sessanta, settanta umani ammassati in ogni singolo carro, i treni venissero comunque assemblati al piano nobile, a fianco degli altri binari, di qui la lugubre storia del Binario 21, a lungo luogo di memoria di tali aberrazioni. La visita, credo che ogni guida, tutti volontari come chiunque lavori in questo spazio, credo che ogni guida dia alle visite la propria linea, la propria forma, il proprio stile, la visita prevede che si entri dentro una carrozza, andando poi a vedere coi propri occhi il binario morto che porta verso il carrello elevatore e quindi il binario nobile, una agghiacciante scritta che recita, più o meno, non mi è sembrato il caso fare foto, “è severamente vietato il trasporto di persone” a rendere il tutto ancora più gelidamente violento. Oltre questo spazio, inutile io stia qui a descrivervi le idee degli architetti per rendere questa visita ulteriormente coinvolgente, questo spazio va assolutamente visitato, c’è un lungo corridoio dove, in terra, sono indicati con tanto di date, i venti treni che da qui sono partiti, dal 6 dicembre 1943 al 22 maggio 1945, cioè a ridosso della liberazione da parte dei russi di Aushwitz, i tedeschi in realtà già scappati da qualche giorno in fuga. Un dettaglio a sua volta agghiacciante, quello che ci dice come le SS continuassero a inseguire il proprio sogno disumano di eliminare ebrei, ma anche dissidenti, antifascisti, zingari, omosessuali, disabili, anche quando ormai il loro destino era chiaramente segnato. Il corridoio in questione, per altro, indica bene anche quali treni erano rivolti esclusivamente al trasporto degli ebrei, quali al trasporto misto e quale solo al trasporto di non ebrei, una minima parte. Sulla parete di lato una lunga sfilza di nomi, oltre settecento, da cui di volta in volta, in un gioco digitale, se ne staccano alcuni, ingranditi. Sono i deportati coi primi due convogli, al momento i soli i cui nomi sono stati ricostruiti con sicurezza. Oltre settecento nomi tra i quali spiccano ventisette nomi scritti in arancione, i soli che hanno fatto ritorno a casa. Una notizia che la guida ci ha dato, tra le tante infilate nella sua affabulazione assolutamente affascinante, il fatto che a differenza di quanto avvenuto a Roma, dove nel rastrellamento del ghetto i nazisti hanno potuto andare direttamente a raccogliere a casa chi poi ha mandato nei campi di sterminio, a Milano c’è stato un passaggio intermedio, con il quarto raggio del carcere di San Vittore e l’albergo Regina, requisito dai nazisti, trasformati nei primi campi di concentramento italiani. Da qui, ci ha raccontato, è partita anche Liliana Segre, una delle ultime sopravvissute alla Shoah, giustamente indicata come simbolo di una memoria che questo luogo e un po’ tutti noi siamo chiamati a tenere assolutamente viva. La differenza tra museo e memoriale, come quella tra olocausto e shoah, il primo atto a raccogliere opere e reperti non legati al luogo, il secondo invece atto a ricordare qualcosa di avvenuto in loco, olocausto nome che indica un sacrifico, shoah parola che significa devastazione, alcuni passaggi più didascalici, ma indubbiamente utili, perché la storia, anzi, la Storia, la guida ci ha tenuto molto a sottolinearlo, si basa sempre e soltanto su dati certi, raccolti e certificati, non sul sentito dire o sulle chiacchiere da social, il racconto di come tempo fa le vetrate del Memoriale siano state distrutte da una sassaiola di un gruppo di No Vax, convinti che il Covid fosse tutta opera della comunità ebraica, dietro le case farmaceutiche a riprova che la ricerca costante di un nemico è sempre utile a qualsiasi tipo di narrazioni. Del resto, gli ebrei sono stati spesso “il nemico”, lei stessa ha citato quando durante il carnevale ambrosiano si infilassero ebrei dentro botti chiodate per poi farle rotolare tra la gente, divertita, o le maschere da ebrei, con nasi adunchi e mente sporgenti, atte sempre a sottolineare differenze che avrebbero poi reso quella differenziazione ancora più marcata. La visita, che presenta anche tutta una serie di testimonianze, da quelle della stessa Liliana Segre a quelle di Nedo Fiato, davvero commovente, finisce, almeno per noi, dentro una costruzione a chiocciola, ovviamente in metallo scuro, con una sola luce nel centro, lì a indicare una freccia in terra rivolta verso Gerusalemme, la città che ha visto nascere le tre religioni monoteiste, oggi al centro di una guerra a sua volta agghiacciante. Una sorta di forno scuro e lugubre che però ci dice che esiste sempre una luce, da qualche parte, a indicare una ipotetica via d’uscita.
Con la mia famiglia anni fa siamo stati a Aushwitz e Birkenau, esattamente nell’estate dopo l’episodio raccontato in esergo. Era una delle tappe di un viaggio on the road che ci ha visto partire da Budapest e arrivare a Berlino, i Monti Tatra e Cracovia come tappe intermedie, di qui la scelta di andare anche in quei due campi di sterminio. Una casualità, il non aver pensato a prenotare la visita per tempo già dall’Italia, ci ha portato lì l’8 agosto del 2019, giorno del diciottesimo compleanno della nostra primogenita, quella Lucia che con me adesso spesso lavora, dalle pagelle di X Factor e Sanremo, al podcast Bestiario Pop. Una scelta che potrebbe risultare vagamente fuori luogo, portare una ragazza a visitare campi di sterminio nel giorno del suo ingresso nel mondo adulto, in effetti ce l’ha rinfacciato a lungo, ma indubbiamente un modo d’impatto per introdurla in un mondo che proprio lì ha dato il peggio di sé, a promemoria di cosa siamo capaci di fare, e anche come stimolo a inseguire sempre il bene e il bello. Una giornata indubbiamente indimenticabile, quella, anche per quel passaggio imprevisto, ricordi che non necessitano una visita alla galleria dei nostri smartphone per rinfrescarci la memoria, una calda giornata d’agosto a lungo ammantata di un velo gelido sopra le nostre anime. Anche la visita al Memoriale della Shoah, seppur più veloce e decisamente meno impattante sotto certi punti di vista, qui non ci sono denti, scarpe o vestiti di chi è finito nei forni crematoi, per dire, ma il saper che su quelle carrozze, quella su cui siamo saliti noi è stata trovata alla stazione di Roma Tiburtina, ma altre ce n’erano, a rendere il tutto agghiacciante all’egual maniera, è qualcosa di emotivamente impegnativo, assolutamente da far vedere a chiunque sia in quella fase della propria vita nella quale forma una propria coscienza sociale e civile, ma anche a chiunque sia convinto di sapere qualcosa solo perché l’ha letto sui social o l’ha sentito dire da qualche parte in tv, la semplice e lineare capacità di comunicazione di un luogo così evocativo dice molto più di quanto le parole non potrebbero fare. Una visita necessaria, credo, tanto più in questi giorni nei quali l’ambigua guerra che Netanyahu sta combattendo contro Hamas, la fascia di Gaza ridotta a macerie, potrebbe spingerci verso un antisemitismo assolutamente immotivato, anche per quanti si sentano di parteggiare con i palestinesi tenuti in ostaggio tra due fuochi. Pensate alle scene dell’estremista di destra polacco Grzegorz Braun che con un estintore spegne le candele accese al Parlamento polacco per festeggiare l’Hanukkah, pensate alle tante svastiche o scritte antisemite che sono apparse nelle città di mezza Europa, pensate ai cori che sono tornati a farsi sentire in certi stadi. Alla fine del tour, quando la luce tersa fuori dal Memoriale della Shoah si è fatta quasi palpabile, ho visto la scritta “indifferenza” su quel muro nero antracite. Un muro, ci ha detto la guida, che è stato responsabile di questa tragedia, la Milano di allora sapeva ma ha finto di non sapere, nessuno che metta piede qui dentro potrà mai più fingere che tutto questo non sia stato e esimersi dal raccontarlo, tenendo viva la memoria per quando i pochi superstiti della Shoah non ci saranno più, perché la storia di chi ha provato a usare un nemico comune per indirizzare l’odio e al tempo stesso tenere tutti gli altri dentro regole rigide, in assenza di libero arbitrio, non abbia a ripetersi. Questo luogo oggi si trova proprio a Milano, una Milano che facendo proprie le parole di Gramsci è partigiana e almeno stavolta affatto indifferente.