C’era una volta un continente stanco ma ambizioso, che un giorno decise che la salvezza della natura sarebbe venuta dai mulini a vento e dai pannelli abbronzanti. Sognava di diventare verde, come i prati d’Irlanda e i pantaloni dei folletti, dimenticando però che il verde, se non è naturale, sa di muffa o di bile. Si chiamava Europa. O almeno così si faceva ancora chiamare, mentre scivolava silenziosa verso la trasformazione in un enorme parco giochi a tema Greta Thunberg. La chiamavano transizione ecologica, ma assomigliava più a un esorcismo collettivo contro il buonsenso. Ed eccola lì, l’Europa, con la corona di fiori e i piedi scalzi, intenta a danzare paganamente attorno al totem dei nuovi dogmi verdi sanciti dagli euroburocrati, mentre le sue centrali elettriche collassavano come castelli di sabbia sul bagnasciuga. Ora, non fraintendetemi, chi scrive ama profondamente la natura e da quando è adolescente si batte per un migliore rapporto fra umani e natura. La ama come si ama una madre, non come si adora un idolo. Sa che è lei che ci rispetta, ci protegge e ci nutre e quindi va rispettata, protetta, nutrita. Ma con realismo. Non con dogmi calati dall’alto come comandamenti di un nuovo decalogo laico. Perché quando l’ecologia diventa ideologia, smette di essere scienza e si trasforma in superstizione. E i primi a pagarne il prezzo sono proprio i boschi, le acque e gli equilibri che si vorrebbero salvare. Sotto il sole della propaganda tutto sembrava splendido. Il Green Deal, un nome che suonava come una canzone di Natale, con dentro le promesse di un futuro pulito, armonico, fotovoltaico. Solo che, mentre Ursula Von der Leyen suonava l’arpa dell’utopia, nei campi olandesi i trattori cominciavano a ribellarsi e in Germania le miniere di carbone tornavano a sbuffare come draghi svegliati a metà sonno.

Eh già, perché quando il sole non splende e il vento tace, la realtà entra dalla finestra e spegne la musica della festa. È accaduto in Spagna, dove il blackout non l’ha causato un hacker russo ma un banale errore tecnico. Ma guai a dirlo, la narrativa green esige mostri da combattere. La verità, invece, è che la rete energetica europea, assetata di energia, non si disseta con quel poco di elettricità che riescono a produrre oggi le rinnovabili. Nel frattempo, i cittadini? Loro pagano. Perché questa è l’altra grande magia di questo approccio ideologico europeo, trasforma le bollette in salassi, i contadini in manifestanti, gli automobilisti in nemici del pianeta. Ma la realtà, checché ne dicano i druidi di Bruxelles, è meno fotogenica dei loro comunicati stampa. Perché l’energia per ora non nasce nelle infografiche, ma nel carbone, nel gas, nell’atomo. E mentre la Germania spegne le sue centrali nucleari per abbracciare l’eolico, poi riaccende quelle a carbone e le chiama “verdi”, con una faccia tosta che non aveva neppure Pinocchio nei suoi giorni migliori. Nel frattempo, le auto elettriche tedesche arrancano, superate dai cinesi che, anziché investire in corsi di coscienza climatica, si sono limitati a fare auto. E il popolo europeo, sempre più povero, sempre più stanco, si ritrova a pagare non solo il conto della cena green, ma pure quello del catering, del palco e della band. Tutta questa transizione viene giustificata dal trauma collettivo della guerra russo-ucraina. Che, secondo i nuovi profeti, impone di tagliare ogni legame con Mosca. Peccato che, nel frattempo, il gas russo continui ad arrivare, camuffato da prodotto esotico via terzi paesi. Un po’ come il marito che finge di aver lasciato la moglie, ma continua a farsi recapitare i panini dalla suocera. Così l’Europa avanza, con passo da sonnambula, verso l’abisso. Una società dove gli agricoltori devono seminare ideologia anziché grano, dove il trasporto merci si fa con le biciclette, e dove gli esperti di climatologia hanno preso il posto dei poeti, salvo che non scrivano in codice binario. Ma forse la colpa è anche nostra, di chi ama davvero l’ambiente. Perché abbiamo lasciato che l’ecologia diventasse una religione laica e atea, distaccata dal divino, fatta di liturgie vuote, di sacrifici imposti, di dogmi assurdi. Abbiamo smesso di ascoltare la terra per ascoltare i consulenti. E così oggi, proprio in nome dell’ambiente, stiamo devastando l’ambiente. C’era una volta, dicevo, un continente saggio. Che aveva capito che la natura va rispettata, non idolatrata. Che il progresso non è una bestemmia, ma una promessa. E che la politica non può essere un culto, ma deve restare un servizio. Ma oggi, nell’Europa che fu, resta solo il rumore del vento. Speriamo sia abbastanza forte per far girare le pale.
