L’istituto Universitario Europeo di Fiesole sembra voglia vietare l’augurio “Buon Natale!” (e il Natale?), sostituito d’ora in poi da “Buone feste d’inverno!”. È quanto emerge da una corrispondenza interna in cui il presidente dell’Eui, Renaud Dehousse, avrebbe chiesto di rispettare un semplice principio di inclusività, quello dell’uguaglianza etnica e culturale. Come se, per altro, sia possibilmente considerare allo stesso modo – soprattutto in questo periodo – qualsiasi cultura e civiltà. Sembra che alla base ci sia questo fraintendimento sempre più comune, una sorta di albinismo culturale che ci impedisce di andare fieri di ciò che siamo, convinti che chiunque sia in diritto di offendersi per qualunque cosa. Non siamo solo tutti più suscettibili, siamo anche tutti più vigliacchi. Eppure, una battaglia a difesa del Natale potrebbe essere proprio quello che serve ai meno coraggiosi per svegliarsi e ricordarsi di essere occidentali, europei e, anche per questo, cristiani. Una cosa così innocua come un augurio di gioia non è il tipico argomento divisivo.
Ecco, questa è una strana perversione linguistica: non dire più "Buona Natale!" ma "Buona festa d'inverno!" non solo cannibalizza una tradizione (perché lo spirito natalizio, oltre qualsiasi questione di fede, è una nostra specifica tradizione) ma è un’impresa priva di senso: quale festa d'inverno? In un modo goffo e banale – ogni anno è sempre la stessa storia – quello che vorrebbero fare è buttar fuori da casa sua il cristianesimo per riammettere il paganesimo, oggi da intendersi come un coacervo di fluidità a buon mercato, che non fa male a nessuno. Il nulla più qualche tisana. Festeggiare madre natura perché non pare un concetto controverso o polemico. Perché non fa differenze e comprende un po’ tutto. È in fondo una distorsione accademica e patinata di un sentimento considerato progressista e pacifico, quella specie di spirito new age fatto di spiritelli a forma di fiore e terra lacrimosa che tanto alimenta l’isteria della nuova sinistra ma che finirà, senza alcun dubbio, per diventare un’opzione attraente anche per quella destra sociale che vive da parassita.
È forse il periodo di peggior crisi del Cristianesimo. Non solo perché la “religione della verità” in un periodo che liquida questo concetto come uno strumento del potere non può avere spazio, ma perché si finisce per scimmiottare mitologiche battaglie illuministe per riformare il costume di una società. Il risultato? Preferire mottetti hippie a consolidate consuetudini che vanno ben oltre il valore religioso di quello che diciamo. Sarebbe come impedirci di dire “Buon appetito”. Cosa si vuole attaccare, il cibo, l’aria, l’acqua (la fame e la sete) che ci contraddistinguono? Torniamo per un attimo al motivo per cui si tratta di “un’impresa priva di senso”. Cosa vogliono cambiare? Il modo in cui le persone normali, cioè non gli automi con gli occhi iniettati di burocrazia, vivono e sentono quel periodo? La festa d’inverno è il Natale dei vegani, l’alternativa cruelty free che finisce per offendere gli unici che non volevo ferire nessuno: i cristiani.