Finora, il principale talento di Walter Isaacson non è stato il saper organizzare entro una rigida struttura drammatica a tre atti il magma caotico dell’esistenza umana, né l’approfondito lavoro di ricerca sulle fonti - eredità dei suoi anni in Cnn - né quel talento innato per lo storytelling - ovvero la capacità di raccontare senza annoiare, roba sconosciuta per molti storyteller di casa nostra portatori insani di sbadigli. Finora, quello che ha davvero contraddistinto le biografie di Isaacson è stata, piuttosto, la sua straordinaria capacità di attualizzazione. Einstein, Kissinger, Steve Jobs, Leonardo da Vinci: se nessuno ha saputo raccontarli come ha fatto lui, è perché non si è mai accontentato della sola celebrazione del passato, ma ha sempre cercato di spiegare perché, quel dato personaggio, fosse così importante per il presente e il futuro di tutti. Bandite la retorica del “genio” e dei superlativi assoluti: con Isaacson qualunque grandezza viene passata al setaccio per essere decodificata, in modo da ricavarne una lezione che fosse insieme chiave di lettura del presente e bussola per il futuro. Così il suo Albert Einstein è il maestro del pensiero critico, che insegna l’arte del dubbio in un mondo in cui tutti affermano di avere la verità in tasca; così Henry Kissinger è il campione di realpolitik, da contrapporre ai guitti di oggi; così Steve Jobs è il visionario che per primo immagina un presente in cui scienza e arte si fondono nell’algoritmo per migliorare l’esistenza umana; così Leonardo da Vinci è il genio irrisolto che, proprio come l’uomo contemporaneo, trova nella sua irrisolutezza il senso della propria esistenza.
Finora, dicevamo.
Perché con Elon Musk, nemico pubblico numero uno di quella cultura woke che ormai permea completamente la nostra epoca, Isaacson sembra cambiare registro. Intendiamoci: lo stile è sempre lo stesso, il libro scorre per 670 pagine a velocità impressionante, e sempre uguale è l’approfondimento delle fonti, la cura per il contesto, il lavoro di ricerca. A cambiare, piuttosto, mi pare essere l’atteggiamento di fondo. Per la prima volta, non abbiamo a che fare con un racconto basato su un eroe ma su quello che gli americani chiamerebbero un “villain”, cioè l’antagonista, il cattivo dei film capace di provocare nient’altro che guai. È come se dopo aver narrato le vite di un gruppo di supereroi, Isaacson abbia deciso di raccontarci la vita del Joker: anche qui abbiamo l’attualizzazione, ma se in passato questa veniva usata per celebrare la grandezza, qui viene usata in senso opposto, per mettere in guardia dal pericolo. Musk che acquista Twitter decidendo l’operazione nel giro di una notte; Musk che sfida da solo l’intera industria automobilistica mondiale puntando tutto sull’energia elettrica; Musk che si mette in testa di colonizzare Marte. Ognuna di queste imprese viene raccontata, principalmente, dal punto di vista dei rischi, dei pericoli insiti nel fatto che un uomo come lui – egotico fino al parossismo – riesca veramente a portarle a termine. E si che i personaggi di cui Isaacson si è occupato in passato non erano esattamente stinchi di santo: con Kissinger, per dire, avevamo a che fare con l’autore della celebre frase “il Sudamerica è il nostro giardino”, attraverso cui l’ex Segretario di Stato americano si prendeva la responsabilità politica di alcuni affarucci da decine di migliaia di morti, colpo di Stato in Cile in testa. Elon Musk ne ha combinate di cotte e di crude, ma al momento non ha ancora dato ordine di uccidere un Presidente democraticamente eletto per instaurare un regime fascista: eppure, la sua condanna è netta.
Il confronto più significativo è quello con la biografia di Steve Jobs, il libro che lanciò Isaacson nel mainstream, trasformandolo in uno scrittore di livello mondiale (poi diventata un bruttissimo film, forse il più brutto tra quelli scritti da Aaron Sorkin, ma questa è un’altra storia). Nella diversità di trattamento dei due personaggi operata da Isaacson abbiamo, a mio parere, la cifra del cambiamento che ha attraversato la società americana negli ultimi quindici anni. A Jobs venivano imputati diversi difetti, ma in un contesto globalmente positivo. Con Musk accade il contrario: ci sono sicuramente dei pregi, ma nel quadro di una personalità così disturbata da risultare maligna, dannosa per la collettività. Leggendo la biografia di Jobs scritta da Isaacson, scoprivamo che sfruttò il lavoro del povero Steve Woznak, si appropriò di invenzioni come il mouse e il desktop con le icone da piccole società informatiche, rubò al mitologico Stewart Brand (lui si, vero visionario che per primo immaginò la società contemporanea) il motto “stay hungry stay foolish”, condusse l’azienda sull’orlo del baratro prima di esserne cacciato. Un fulgido esempio, insomma, della teoria enunciata nel finale di “The Founder”, lo straordinario film di John Lee Hancock con Michael Keaton nei panni del fondatore di Mc Donald Ray Kroc, secondo cui, parafrasando Balzac, in America ogni grande fortuna è basata su un grande furto. Leggendo la briografia di Musk, invece, leggiamo la storia di un uomo con ambizioni di grandezza aldilà della follia, che però si è sempre messo in gioco in prima persona; e tuttavia, il libro è una caccia al tesoro di lati oscuri, di dettagli morbosi (la storia con Amber), di manie, perversioni, insofferenza alle regole. Il quadro che ne esce è di un bambino viziato, che considera il mondo la sua cameretta con cui giocare. Si è fatto un gran parlare, nelle anticipazioni date alla stampa, del fatto che le parole preferite di Musk siano controllo, insensibilità, urgenza, amore per il dramma e mancanza di empatia. Insomma: uno stronzo perfetto, e siamo d’accordo. Ma conoscete un miliardario di cui non si possa dire la stessa cosa? Ci sono esempi di persone che hanno ammassato fortune gigantesche il cui motto era “ama il prossimo tuo”?
Il motivo di un simile cambiamento di paradigma trascende la questione letteraria. Un decennio fa (il libro su Jobs uscì poco dopo la morte, nel 2011) la società americana esportava nel mondo il mito della Silicon Valley. Erano gli anni in cui poche start up concentrate nella lingua di terra vicino San Francisco si preparavano a modificare per sempre la vita di miliardi di individui, garantendo profitti mai visti in precedenza agli investitori. Niente funziona meglio di una storia ben scritta per diffondere un’idea (come dice sempre Tarantino, la storia di Cristo è la migliore sceneggiatura di tutti i tempi): e la vita di Jobs raccontata da Isaacson funzionò a meraviglia, improvvisamente tutti avevamo un amico che al bar, con un dolcevita nero, parlava di business plan, breaking event point e “cura maniacale per i dettagli”. Oggi i risultati di quel modello sono sotto gli occhi di tutti: fake news, populismi, Airbnb che ha distrutto il tessuto sociale di intere città, Uber Eats e affini che hanno reintrodotto dopo un secolo e mezzo il concetto di schiavitù. Ma nessuno chiede conto di questo, perché nel frattempo è arrivato il modello successivo, il nostro amico dell’Oviesse ha gettato il dolcevita in favore della bandana arcobaleno, e se prima parlava di start up, oggi parla di inclusività, di progetti mirati a vendere prodotti alle donne, ai gay, ai neri, ai trans, la società delle etichette che tanto piace agli uffici marketing perché semplifica loro la vita targettizzando meglio i prodotti. La ricchezza è ancora tutta nelle mani di maschi bianchi alla guida di hedge funds, ma hey, ci sono tanti di quei pronomi tra cui scegliere per cui sarebbe proprio da idioti lamentarsi dello stipendio da fame, giusto? In questo quadro, la biografia di Isaacson su Elon Musk è un caso sopraffino di character assassination, che farà felici tutti coloro che vedevano il padrone di Tesla con il fumo negli occhi. E la prova sia che, per la prima volta, anche Isaacson, lui quoque, ci rifila una sesquipedale fake news, quando nel libro racconta che Musk si sarebbe attivato in prima persona per impedire all’Ucraina un attacco coi droni. Sarebbe stata una notizia clamorosa, perché’ ne avrebbe fatto un criminale di guerra: peccato fosse falsa e l’autore abbia dovuto cercare di metterci una pezza. Non esattamente quello che ci aspetta dal più grande autore vivente di biografie.